L’Italia è tra i pochi paesi a non avere leggi specifiche in materia. Tra le varie proposte di legge, che peraltro sino ad oggi non hanno avuto corso, solo il DDL proposto da Nunzia Catalfo e sostenuto dal M5S risultava incentrato su una soglia minima fissa relativa ad un ammontare lordo di 9 euro l’ora, con conseguente oscillazione di quello netto tra i 5 ed i 6 euro l’ora. L’introduzione di una soglia minima, fissa e omogenea rispetto all’intero territorio nazionale, risulta oggi apertamente contrastata da gran parte delle associazioni imprenditoriali e dal governo fascista in carica.
Nella gran parte dei paesi europei il salario minimo esiste con il preciso scopo di prevenire e contenere, con una logica riformista e corporativa, la conflittualità sociale. In Italia la sua introduzione per via istituzionale non a caso perseguita, pur in forme diverse, da M5S e PD e, in quest’ultimo caso, in termini ulteriormente antipopolari, presenterebbe oggettivamente un altro obiettivo, quello di rendere la soglia minima un termine di riferimento per spinta al ribasso della media complessiva dei salari esistenti. Su questa base il problema si presenta comunque indirizzato dagli interessi delle principali associazioni imprenditoriali, dei sindacati confederali e da quelli delle forze politiche di potere. Non solo il dibattito e il confronto in sede istituzionale si sviluppa senza la minima assunzione degli interessi del proletariato e di vasti strati di lavoratori oggetto di un particolare sfruttamento, ma anche soprattutto come concreta articolazione dell’offensiva antioperaia e antipopolare. Le contraddizioni tra le forze politiche di potere sono relative alla competizione per l’ottenimento dell’investitura del blocco reazionario dominante rispetto ad un ruolo di governo. Inoltre, la diatriba presenta una non secondaria natura demagogica e manipolatoria in funzione dell’esercizio dell’egemonia sulle masse popolari, con il proposito di accentuarne gli elementi di frammentazione, di passività e di dipendenza dalle istituzioni e dalle forze reazionarie.
Senza l’organizzazione politica indipendente e senza un’effettiva organizzazione sindacale di classe capaci di sviluppare capillarmente l’iniziativa e la mobilitazione a partire dalle fabbriche, dai posti di lavoro e dai diversi soggetti sociali precarizzati e sfruttati, la questione del salario minimo è solo fonte in confusione, di mistificazioni e di illusioni. Soprattutto è fonte di ulteriori tentativi di divisione tra i lavoratori sfruttati, con la contrapposizione tra chi può aspirare al salario minimo e chi deve conseguentemente difendersi, senza nemmeno averne effettive possibilità, dalla palla al piede che l’istituzione del salario minimo può diventare per la maggioranza dei lavoratori salariati. Di fatto dunque le diatribe tra le forze politiche di potere, a partire dall’opposizione a tale misura delle forze fasciste, è tutta funzionale allo sviluppo di questa guerra interna. Viceversa, in presenza di condizioni politiche e sindacali favorevoli allo sviluppo della lotta di classe, ossia in presenza di un effettivo partito politico rivoluzionario e di un sindacato di classe, la battaglia sul salario minimo può diventare una delle varie forme della lotta per aumenti salariali su base omogenea ed egualitaria.
Non per questo la questione del salario minimo e la diatriba intercorrente tra le varie forze padronali, politiche e sindacali risulta priva di importanza per il proletariato e le masse popolari. Al contrario, offre utili elementi per lo sviluppo della coscienza e per la costruzione delle condizioni soggettive sul piano politico e sindacale di classe, per lo sviluppo dell’organizzazione e della lotta indipendente del proletariato come classe dirigente di più ampi strati sociali popolari piccolo-borghesi.
La questione del salario minimo scoperchia una realtà che evidenzia l’arretratezza dell’economia italiana rispetto all’intera Europa. Una condizione in cui la retorica e la prepotenza tipiche del capitalismo, dello Stato e dei governi del nostro paese sfiora costantemente il ridicolo di fronte alla realtà di un imperialismo marginale e straccione, che sfrutta e massacra i propri lavoratori in misura superiore o largamente superiore a quella della media dei vari paesi europei. Un’Europa in cui, appunto, è fissata per legge, nella quasi totalità dei paesi aderenti all’UE, una soglia minima fissa ed omogenea su base nazionale. Se consideriamo, rispetto ai paesi dell’UE, la media relativa all’ammontare di tale soglia e il relativo rapporto con il costo del lavoro e la qualità dei servizi pubblici, e se a tutto questo aggiungiamo lo scarto di dimensioni relativamente limitate (rispetto al caso italiano) tra salario lordo e salario netto, risalta anche il vero carattere della proposta del M5S. Quello che risulta infatti è che la proposta del M5S dei 9 euro lordi l’ora finisce per ribadire il posizionamento dell’Italia, anche rispetto alla questione del salario minimo, ai posti più bassi della scala europea. Questo mentre addirittura il PD vuole una soglia salariale minima variabile e quindi inevitabilmente disomogenea su scala settoriale e territoriale.
Sull’altro versante le forze di potere legate al carrozzone fascista sollevano l’argomentazione che la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani lavorano in categorie dove i salari sono stabiliti dai contratti collettivi nazionali. In realtà, si tratta di una posizione ai limiti del surreale se si considera il peso del cosiddetto lavoro povero in Italia e cioè del lavoro contrattualmente retribuito intorno ai 5 euro lordi l’ora.
Inoltre, i tre principali contratti del lavoro povero sono stati firmati da CGIL CISL e UIL nei comparti Vigilanza privata, Multiservizi e Servizi Fiduciari e riguardano diversi milioni di lavoratori. Siamo di conseguenza di fronte a una situazione in cui un intero settore del vorace e miserabile mondo imprenditoriale italiano, prospera anche grazie al lavoro povero (ma non è solo relativo al terziario, basti pensare alla diffusione dei rapporti semi-servili nelle costruzioni e nell’agricoltura). A questo va aggiunto il mondo del lavoro nero, delle false partite IVA, dei lavoratori che operano per le imprese in subappalto, dei lavoratori con contratti part-time, ecc.
Premesso ciò, è importante ricordare che i salari dei lavoratori salariati “non poveri” sono fermi da trent’anni, con l’effetto che il salario si è straordinariamente ridotto rispetto al valore della forza-lavoro, dato che, a partire dalle fabbriche, trascina e inchioda a livelli miseri le retribuzioni delle masse popolari piccolo-borghesi delle amministrazioni e dei servizi pubblici e privati, del commercio, degli alberghi, dell’agricoltura e del piccolo allevamento.
Sul tema del salario minimo si sono date nello specifico, oltre alla proposta del M5S, due iniziative da parte di soggetti e schieramenti politici diversi:
- una proposta di legge, dai caratteri palesemente elettoralistici e propagandisti promossa da Unione Popolare (PRC, PAP, ecc.), che rivendica un salario minimo di 10 euro lordi indicizzati e completamente a carico delle aziende;
- una dell’opposizione parlamentare (Azione, 5S, PD e SI), che prevede una soglia minima variabile non indicizzata e parzialmente coperta da investimenti pubblici.
Fatto salvo che di regola il destino delle proposte di legge popolari è quello di finire in un cassetto (ed è quello che è accaduto), era evidente che l’attuale maggioranza di governo non era disponibile ad accettare l’introduzione del salario minimo né nella versione dell’Unione Popolare, né nella versione soft dell’opposizione parlamentare, anche se non è da escludersi qualche intervento ulteriormente depotenziato di sostegno al reddito a fini elettorali. Non a caso, l’elaborazione di una proposta sul salario minimo è stata affidata ad un ente come il CNEL, che è nella sostanza una vera e propria camera delle corporazioni e che è diretto da dichiarati avversari del salario minimo come Renato Brunetta.
Bisogna ancora sottolineare il fatto che tutta la questione del salario minimo non è stata affrontata sulla base di una mobilitazione dei lavoratori che richiedevano aumenti salariali, ma come iniziativa di una serie di soggetti politici come Unione Popolare, che aveva l’esigenza di proporsi come sinistra radicale e di conquistare il consenso di settori di lavoratori combattivi, e come l’opposizione parlamentare che, in presenza di un governo di destra fascista, ha l’esigenza di ricollocarsi come “sinistra”, mettendo sotto il tappeto decenni di serena accettazione delle politiche di taglio dei salari, indebolimento dei diritti, ecc. L’operazione politico-elettorale da parte dell’opposizione parlamentare, come si è visto, non è riuscita, considerati anche decenni di disincanto della “politica” da parte delle masse popolari, che ha portato a un’astensione elettorale attorno al 48% nelle ultime elezioni europee del 2024.
Sulla questione del salario minimo, d’altro canto, vi è stata una modificazione strumentale delle posizioni sia da parte di CGIL CISL e UIL. In un quadro politico modificato con l’ascesa del governo delle destre, la CGIL ha cambiato posizione facendo del salario minimo un’occasione di competizione con il governo. È stato persino divertente ascoltare il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, invitata al Congresso della CGIL, che ricordava ai partecipanti, anche per tagliare le gambe alla loro demagogica posizione sul salario minimo, ciò che loro stessi avevano sempre sostenuto in merito alla “centralità della contrattazione” ossia, in altri termini, alla centralità del collaborazionismo sindacale nelle relazioni industriali del nostro paese.
PER LA DEMOCRAZIA POPOLARE