INTRODUZIONE

In un dato paese lo scarto tra l’aspettativa di vita del proletariato e delle masse popolari e quella della borghesia è una questione di classe. Per quanto attiene all’Italia si possono stimare dai cinque, o più verosimilmente, ai dieci anni di differenza[1].

L’indice corrente relativo alla speranza o aspettativa di vita astrae dalla realtà di una società divisa in classi sociali, quindi accumuna in modo mistificante la speranza di vita delle classi privilegiate e sfruttatrici con quella delle masse popolari. Per valutare quindi l’effettivo scarto dell’età media relativa alla speranza di vita di queste ultime classi sociali, non si deve considerare l’indice generale dell’aspettativa di vita della popolazione italiana, ma l’effettiva differenza tra i due estremi relativi, da un lato, allo specifico indice della speranza di vita del proletariato soggetto al lavoro salariato e alla formazione dell’esercito industriale di riserva (disoccupati, massa del lavoro precario, lavoratori in nero, ecc.) e, dall’altro, alla speranza di vita della media e della grande borghesia. Ovviamente le statistiche correnti non solo non stimano questi dati, ma hanno principalmente lo scopo di occultarli.

Le statistiche ufficiali escludono quindi a priori una classificazione delle cause di morte con messa in correlazione con dati indicativi della condizione di classe[2]. Alcune statistiche riportano correlazioni con una classificazione grossolana relativa alla relazione con il grado d’istruzione, da cui risulta comunque uno scarto che si approssima ai cinque anni di differenza. Si tratta comunque di statistiche che hanno lo scopo di giustificare tale scarto, attribuendo ai comportamenti ed alle scelte dei lavoratori la responsabilità del minor livello medio di aspettativa di vita. In particolare si chiama in causa la scarsa igiene e culturale in campo alimentare[3].

Le morti sul lavoro sono un fenomeno che nella sua particolarità contiene e svela le cause generali, di classe, dovute al sistema dello sfruttamento capitalistico, della minor aspettativa di vita del proletariato e delle masse popolari. Non esiste però una precisa stima dell’entità del fenomeno se si escludono i dati relativi agli infortuni mortali sul lavoro e le morti per le malattie professionali formalmente riconosciute ed oggetto di misure previdenziali e risarcitorie.

Queste morti vengono chiamate volutamente ed ipocritamente “morti bianche” col fine di alludere all’assenza di un responsabile dell’accaduto attribuendone la causa alla fatalità.

I MORTI SUL LAVORO ED IL MISTIFICANTE LINGUAGGIO DEI MASS MEDIA

Che si tratta di omicidi è stato sostenuto persino dal magistrato Bruno Giordano, direttore dell’Ispettorato del Lavoro dal 2021 al 2022. Tenuto conto che oggi gli ispettori del lavoro si ritrovano generalmente, volenti o nolenti, a collaborare con le imprese al fine di evitare possibili ripercussioni sull’andamento dei loro affari, si tratta di un’ammissione significativa.

Il magistrato, rivolgendosi ai giornalisti, li ha quindi invitati a cambiare il registro comunicativo in modo da veicolare una corretta percezione del fenomeno. In tale invito faceva riferimento all’utilizzo dell’Agenda Setting[4] utilizzata ampiamente dai giornalisti, cioè l’influenza dei media sull’audience in base alla scelta del linguaggio, delle notizie notiziabili e dello spazio concesso alle stesse.

Un esempio di come il linguaggio non sia neutro e di come i giornalisti ne facciano uso e strumento di difesa di imprenditori senza scrupoli che mirano esclusivamente al profitto, ce lo fornisce la notizia della morte (in realtà omicidio) della ventiduenne Luana D’Orazio, trascinata in un orditoio nella frazione di 9 secondi tra la segnalazione dell’anomalia del computer dell’orditoio e il tempo in cui un collega ha spento la macchina, la cui manomissione accertata consentiva un aumento dell’8% della produttività. Una manomissione emblematica che nasconde una cruda e feroce realtà, quella dell’imprenditore per il quale la vita non ha alcun valore di fronte alla massimizzazione del profitto.

In questo tragico evento la narrazione si è focalizzata sulla giovanissima età, sulla vita privata corredata da immagini che contrappongono la vita alla morte, sull’orditoio definito “orditoio di Luana”, facendolo diventare l’antagonista della lavoratrice, evitando così di indicare il padrone come responsabile della morte per aver manomesso direttamente il macchinario, interessato solo al profitto e al capitale.

Si tratta di una narrazione giocata sui toni emotivi in modo da non dare rilievo all’aspetto fondamentale, l’omicidio del proletario ad opera del capitalista, in sostanza una manipolazione dell’informazione che purtroppo, con l’avvento dell’ultrareazionario governo Meloni, si è talmente aggravata e consolidata, tanto da adottare in tutte le reti televisive, pubbliche e private, una linea unica di informazione al servizio del governo, quasi un Istituto Luce di mussoliniana memoria.

I MORTI SUL LAVORO: I DATI UFFICIALI

Una pallida idea dell’entità della questione dei morti sul lavoro è evocata dai dati dell’Osservatorio della sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre dai quali risultano: 1) 4713 morti sul lavoro dal 2018 al 2021 con un aumento del 48% rispetto al 2020, 2) nel primo semestre del 2023, 450 morti di cui 346 infortuni mortali durante il lavoro e 104 in itinere- 75 decessi al mese, 17 a settimana, 3) incidenza mortalità tra i 14 e i 24 anni superiore del 100% rispetto  ai lavoratori tra i 25 e i 34 anni, 4) incidenza più elevata nella fascia degli ultrasessantacinquenni – 55,3%, 5) incidenza del 26,4%  nella fascia dei lavoratori tra i 55 e i 64 anni, 6)incremento degli incidenti mortali riguardante tutti i settori, anche se il più colpito è quello dell’edilizia, 7) le aree più devastate sono il Centro e il Sud.

Tante le cause degli infortuni mortali rilevate dalle stesse statistiche istituzionali: scelte politiche che hanno precarizzato il lavoro, condizioni di lavoro usuranti, tipi di contratto, flessibilità, appalti e subappalti, mancanza di formazione, norme di sicurezza disattese, sindacati conniventi con i proprietari delle aziende, controlli insufficienti, il tutto da inserire nel quadro di un’economia capitalistica il cui unico scopo è il profitto.

Nonostante il numero elevatissimo dei morti sul lavoro, considerati effetti collaterali, in carcere non c’è un padrone.

Indicativo il caso del rogo alla Thyssenkrupp che nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 nell’impianto di Torino costò la vita a 7 operai. Il manager Harald Espenhahn è stato condannato dal tribunale tedesco a 5 anni, massimo della pena in Germania per omicidio colposo, dimezzando così la sentenza italiana.

Sconterà la pena in semilibertà andando a dormire la sera in carcere. E qui vengono in mente i versi di E. Lee Masters: “Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto: <<Non guarda in faccia a nessuno>>. Poi un giovane col berretto rosso balzò al suo fianco e le strappò la benda. Ed ecco, le ciglia eran tutte corrose sulle palpebre marce; le pupille bruciate da un muco latteo; la follia di un’anima morente le era scritta sul volto. Ma la folla vide perché portava la benda”[5].

Siamo in presenza di un vero e proprio bollettino di guerra, la guerra dei padroni contro i/le proletari/e.

I reati per i morti sul lavoro sono stati tutti depenalizzati.

La legge d’iniziativa popolare promossa da Unione Popolare per l’introduzione del reato di omicidio e lesioni gravi e gravissime sul lavoro ai lavoratori e alle lavoratrici è un atto puramente propagandistico, che richiede allo schieramento del governo che controlla il parlamento di farsi carico della promozione di una legge in tal senso. Si tratta di un’arma a doppio taglio, da un lato può contribuire a focalizzare l’attenzione sull’entità del fenomeno, dall’altro può illudere le masse circa la possibilità che un governo borghese, e per di più fascista, possa venire condizionato a farsi carico degli interessi delle masse popolari.

I RESPONSABILI: CAPITALISTI, STATO, GOVERNI, PARTITI, PADRONI E SINDACATI CONFEDERALI

Fatte le dovute proporzioni e contestualizzazioni, l’odierna conta dei morti nel nostro paese rimanda alla memoria la descrizione e l’analisi sulle condizioni socio-economiche della classe operaia inglese durante la prima industrializzazione, fatta da Engels ne: “La situazione della classe operaia in Inghilterra”. I rapporti di produzione rimangono gli stessi ed è lo stesso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, del capitalista sull’operaio. La differenza fondamentale è però data dal fatto che allora il capitalismo andava verso un’espansione su scala globale, mentre adesso è entrato in una fase di decadenza terminale. Affermare però che la classe operaia non esiste più è una bugia costruita ad arte; la classe operaia è tutt’altro che morta, ma allo stato attuale è frammentata dalle vigenti condizioni di lavoro e relazioni industriali, che aumentano all’inverosimile la nocività del lavoro salariato. Tutto questo è ben evidenziato da dati come i seguenti: 1) l’orario di lavoro sulle 8 ore al giorno, 40 ore settimanali, 48 compresi gli straordinari, è soggetto a contratti sempre più peggiorativi che accentuano enormemente lo sfruttamento e l’usura dei lavoratori; 2) la flessibilità, introdotta grazie all’operato dei sindacati confederali con il pretesto del suo utilizzo temporaneamente in situazioni eccezionali, è diventata una costante ed è stata applicata nel rapporto lavorativo subordinato e alla retribuzione; 3) gli appalti e subappalti, impongono condizioni di lavoro al ribasso, turni troppo lunghi senza pause adeguate, carichi di lavoro più pesanti, basse retribuzioni. In sintesi: più si riducono i costi e più aumentano i rischi per i lavoratori.

Nell’agricoltura tutto questo è aggravato dal fatto che domina ancora il caporalato (il 74% di sfruttati sono i lavoratori stranieri e comprendono i figli di questi ultimi durante l’estate) supportato sotto lo sguardo vigile di mafiosi e vigilantes privati. Si tratta di un fenomeno che rimanda ad una sorta di sfruttamento semifeudale e che non riguarda solo il Sud. Qualcosa di simile avviene comunemente anche nelle imprese di costruzioni ed in certi casi nell’industria tessile o in determinati settori della logistica.

Con la fine degli anni Settanta, si compie la piena trasformazione reazionaria dei sindacati confederali, che impongono ai lavoratori l’adeguamento dei salari alle esigenze dei padroni sul terreno degli incrementi della produttività (dei profitti) ed aprono la strada alle varie controriforme tra cui quelle del sistema pensionistico[6]. Dopo il taglio della scala mobile è un susseguirsi di continue controriforme gestite da padroni, sindacati, istituzioni e governi di “centro-destra” e di “centro-sinistra”.

Con l’accordo del 1993, il governo Ciampi presidente del consiglio, Giugni ministro del lavoro, sindacalisti Trentin, D’Antoni, Larizza, per Confindustria Abete, si sancisce il criterio della concertazione fra le parti sociali. Con l’accordo del 1995/(Governo Dini), si affermano le pensioni erogate col calcolo contributivo. Venne approvato dalla maggioranza fra cui il Pds e alcuni fuoriusciti di Rifondazione Comunista, che votò contro. Il pacchetto Treu venne votato nel 1997 dal governo Prodi con l’appoggio, questa volta, di Rifondazione Comunista. Unica opposizione quella di Mara Malavenda. Impose varie forme di contratti flessibili ed il lavoro interinale (con Treu ministro del lavoro e della Previdenza sociale). Nel 2001 il decreto Sacconi introduce il lavoro a termine per esigenze produttive. Il decreto Poletti nel 2014 sancisce la possibilità di rinnovo del contratto a tempo determinato.  

E…infine: il “lavoro a chiamata” sancito dal decreto 81/2015 con il governo Renzi. Job Acts 2017 del governo Renzi con depenalizzazione del reato di somministrazione illecita di manodopera e contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Liberalizzazione dei voucher 2012, reintrodotto e peggiorato dal governo Meloni (si eliminano, per esempio, i limiti del suo uso per alcuni settori, come il Turismo e lo si estende a discoteche, night-club). Obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro (2015, governo Renzi Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini). Sino ad oggi sono morti ben tre studenti a causa di tale decreto. A volte, come nel caso del diciottenne Giuliano De Seta, al danno si aggiunge la beffa, dal momento che la sua famiglia non potrà avere il risarcimento perché per l’Inail era uno stagista e agli stagisti la somma viene erogata solo se si è capofamiglia.

Accanto a tutto questo le varie tappe dell’attacco alle pensioni e l’abolizione sostanziale del reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo.

Queste peraltro sono solo una parte delle misure intraprese nel corso degli ultimi quarant’anni nel quadro di un’offensiva ininterrotta contro il proletariato e le masse popolari, che ha spianato la strada all’avanzata del fascismo e al crescente attivismo guerrafondaio del miserabile imperialismo straccione italiano.  

Il quadro si è dunque complicato ulteriormente con un governo neofascista, antidemocratico e guerrafondaio per eccellenza, un governo che, dinanzi alla tragica mattanza dei lavoratori, sul fronte della sicurezza ridimensiona il “Fondo di sostegno per le famiglie vittime di gravi infortuni”. Con il decreto 75/2023, firmato da Marina Elvira Calderone, ministro del lavoro e delle politiche sociali, per l’anno 2023 si fissa un massimo di 14.500 euro contro i 22.400 euro del 2022 ed un minimo di 4.000 euro contro i 6000 euro del 2022. Si tratta di “una tantum” che l’Inail versa alle famiglie nel giro di poche settimane in attesa dell’indennizzo che verrà stabilito dopo le verifiche sull’incidente.

Il governo di destra si accanisce con misure oppressive e lesive della dignità umana con l’intento preciso di emarginare sempre di più chi è già pesantemente colpito dall’inflazione, dal caro prezzi, dalle tasse molto alte, dalla disoccupazione. Ha l’arroganza di colpevolizzare quanti hanno percepito il reddito di cittadinanza descrivendoli come cittadini senza alcuna voglia di lavorare, parassiti della collettività. Pertanto, non trova di meglio che eliminare il reddito di cittadinanza promettendo per un verso di creare corsi di formazione (per il momento inesistenti) in vista di una futura improbabile occupazione lavorativa, aumentando esponenzialmente il lavoro nero, sottopagato e senza alcuna sicurezza sui luoghi di lavoro; per un altro verso offre una miserabile “carta di povertà” a tempo per coloro che non sono nelle condizioni di lavorare. 

Il sistema capitalistico, in crisi terminale ha bisogno di lavoratori/trici da spremere spietatamente, con l’aiuto della repressione e del fascismo, sino all’ultima goccia di sudore, di sangue; non importa quanti morti comporterà. Abolito il Reddito di cittadinanza si ha a disposizione una massa di cittadini costretti ad accettare lavori precari per salari che non garantiranno nemmeno la sopravvivenza.

MORTI SUL LAVORO E MALATTIE PROFESSIONALI: I DATI UFFICIALI

Al di là dei morti ufficialmente riconosciuti per infortunio sul lavoro si cerca di occultare i morti per le malattie professionali. Si tratta di eventi registrati in modo del tutto parziale e con criteri arbitrari, propri di un’impresa monopolistica di assicurazioni, dalla stessa Inail dai quali comunque risulta che:

1) le denunce di malattie professionali registrate nei primi sei mesi del 2023 sono state 38.042 quasi 7000 in più rispetto allo stesso periodo del 2022 (+22,4%). (L’incremento è del 31,8% rispetto al 2021, dell’87,1% sul 2020 e del 16,8% rispetto al 2019;

2) i dati rilevati al 30 giugno di ciascun anno mostrano un aumento del 22,6% nell’industria e servizi (da 25.507 a 31.262 casi) e del 21,1% in agricoltura (da 5.308 a 6.430);

3) l’incremento delle denunce interessa tutte le aree del Paese, a partire dal Sud (+29,6599, seguito dal Centro (+22,8%), dal Nord-Ovest (+21,9%), dal Nord-Est (+14,5%) e dalle Isole (+9,2%);

4) si registrano 4.779 denunce di malattie professionali in più per i lavoratori, da 23.054 a 27.833 (+20,7%) e 2.178 in più per le lavoratrici, da 8.031 a 10.209 (+27,1%). Tale aumento riguarda sia le denunce dei lavoratori italiani, passate da 28.725 a 34.978 (+21,8%), sia quelle dei comunitari, da 781 a 911 (+16,6%) e degli extracomunitari da 1.579 a 2.153 (+36,4%);

5) il 95% delle morti per malattia professionale sono causate dai tumori;

6) dai dati Inail emerge anche il basso tasso di riconoscimento delle malattie professionali dei docenti per i quali non vengono effettuati controlli relativi allo stato di salute ( si pensi a quegli insegnanti che lavorano nei laboratori di grafica a contatto con sostanze cancerogene, spesso senza protezioni adeguate e in locali inidonei, o alle varie problematiche psichiche che insorgono frequentemente come esito di un’attività indubbiamente usurante in un ambiente lavorativo generalmente irregimentato).

MORTI SUL LAVORO: UN QUADRO PIÙ COMPLESSIVO

Non solo non tutti gli infortuni mortali vengono realmente rilevati e classificati come tali (si pensi all’insorgere delle cardiopatie a veloce decorso infausto o agli incidenti stradali al rientro dopo estenuanti turni di lavoro), ma la questione dei morti per cause di lavoro riguarda in particolare l’enorme incidenza delle malattie professionali con sintomatologie e patologie permanenti. Malattie che hanno comunque sempre rilevanti conseguenze sotto il profilo della riduzione delle aspettative di vita.

Le malattie professionali riconosciute formalmente come tali sono dunque una parte esigua del totale delle effettive malattie professionali contratte dai lavoratori e quindi la stragrande maggioranza delle morti per cause di lavoro non è nemmeno lontanamente oggetto di adeguate stime. Si pensi alla quasi impossibilità per il lavoratore o per la sua famiglia di poter usufruire dell’accesso ai dati, ai servizi e agli esperti per la necessaria documentazione tecnica, ai fini del riconoscimento della copertura previdenziale di patologie (cardiache, tumorali, relative a forti decadimenti psichici, ecc.) insorte in età adulta o immediatamente dopo la soglia pensionistica, dipendenti dalla nocività e dal carattere usurante degli ambienti e delle relazioni di lavoro.

Anche lo stress è ormai universalmente riconosciuto come uno dei principali fattori di rischio e quindi come una delle principali cause di cardiopatie, patologie psichiche e neoplasie maligne. Se consideriamo le condizioni di lavoro fortemente usuranti sotto il profilo psico-fisico a cui sono sottoposti il proletariato e parte rilevante delle masse popolari del nostro paese, dato che il modello di sviluppo del capitalismo italiano ha sempre fatto leva sull’abbassamento del valore della forza-lavoro con conseguente eccesso di logoramento dei lavoratori e relativa riduzione dell’aspettativa di vita, l’unica conclusione che se ne può trarre è che la questione investe la maggioranza del proletariato e delle masse popolari del nostro paese.

OLTRE LE MORTI SUL LAVORO: CONDIZIONE DI CLASSE E RIDUZIONE DELL’ASPETTATIVA DI VITA

Sottolineavamo all’inizio dell’articolo come i morti sul lavoro o per cause di lavoro (malattie professionali quasi sempre non riconosciute) non sono che il dato più evidente e, per quanto riguarda il proletariato e gli strati più sfruttati, precarizzati ed oppressi della piccola borghesia, che più direttamente connette l’origine e l’appartenenza di classe con la riduzione dell’aspettativa di vita.

In primo luogo occorre una stima quantitativa, pur a grandi linee, dell’entità del problema. Si possono individuare 23 milioni di occupati (2022) e stimare almeno 7 milioni di disoccupati o costretti al lavoro nero nelle file del proletariato e delle masse popolari. Abbiamo quindi verosimilmente un totale di almeno 22 milioni di lavoratori attivi o potenzialmente attivi membri appartenenti alle masse popolari, a fronte di un corrispettivo di 8 milioni che, a grandi linee, possono essere fatti rientrare nei vari strati della borghesia e delle classi privilegiate. Su tale base, assumendo uno scarto di 7,50 anni di vita tra i valori medi estremi dell’aspettativa di vita del proletariato rispetto a quella della borghesia, abbiamo che nell’arco di un’intera vita di un proletario, considerando anche solo 22 milioni di lavoratori attivi o potenzialmente tali appartenenti alle masse popolari, abbiamo il seguente dato: 7,5 x 22 milioni = 165 milioni. Si tratta quindi di 165 milioni di anni di vita che la borghesia e le classi privilegiate del nostro paese sottraggono, in media in settanta-ottanta anni, al proletariato e alle masse popolari. È come se nell’ arco degli ultimi settanta-ottanta anni, il capitalismo italiano e le classi sociali che lo impersonificano avessero sterminato, su base classista, 2 milioni e 350 mila lavoratori, oppure è come se, ogni dieci proletari e membri delle masse popolari in condizione di lavoro, fosse stato perpetrato l’assassinio di un lavoratore.

Si tratta adesso di accennare, pur in modo del tutto riduttivo e frammentato, come semplice spunto per la definizione di un relativo specifico programma di studio e di lavoro, alla relazione più generale che intercorre, sotto il profilo qualitativo, tra l’origine e l’appartenenza di classe e le cause della riduzione dell’aspettativa di vita. Le morti per causa di lavoro sono solo il nucleo di un universo di eventi che rimanda a tutti gli aspetti di fondo della vita del proletariato e delle masse popolari. Infatti in una società imperialista (e particolarmente in una società con una struttura capitalistica come quella italiana, gravata in modo inaudito dalle rendite e dalla semi-dipendenza dalle principali potenze imperialiste ed ormai in pieno stato di crisi e decomposizione) tutto è attraversato dalla contraddizione e dall’antagonismo di classe e dalla ferocia con cui, di fatto, le classi privilegiate e sfruttatrici comprimono i livelli e la qualità di vita delle masse popolari, contribuendo ad alimentare, con il disagio sociale, le malattie e le cause di morte, la riduzione dell’aspettativa di vita di queste ultime, a partire da una pluralità di terreni, da quello primario della gestione classista del territorio e della salute, a quello degli istituti previdenziali, delle possibilità di accesso alla cultura e all’istruzione, della diversa incidenza dell’inquinamento, della qualità dell’alimentazione, delle opportunità abitative, della propagazione e dell’impatto delle malattie infettive (es. la pandemia tutt’ora in atto), delle possibilità di svago e di socializzazione, ecc.

Il sito panoramasanità.it in un articolo del 2018 cita da un documento ufficiale del SSN che, se ha la pretesa, in linea con le più volgari teorie sociologiche borghesi, di spiegare la minor aspettativa di vita con il grado d’istruzione, è anche costretto a far trasparire il grado d’influenza del fattore relativo alla condizione sociale di appartenenza: “sensibili differenze sociali, nella classe di età 25-44 anni la prevalenza di persone con almeno una cronica grave è pari al 5,8% tra coloro che hanno un titolo di studio basso e al 3,2% tra i laureati. Tale gap aumenta con l’età, nella classe 45-64 anni, è il 23,2% tra le persone con la licenza elementare”. Nello stesso sito si riporta: “Alle disuguaglianze di salute si affiancano quelle di accesso all’assistenza sanitaria pubblica, si tratta delle rinunce, da parte dei cittadini, alle cure o prestazioni sanitarie a causa della distanza delle strutture, delle lunghe file d’attesa e dell’impossibilità di pagare il ticket per la prestazione. Nella classe di età 45-64 anni le rinunce ad almeno una prestazione sanitaria è pari al 12% tra coloro che hanno completato la scuola dell’obbligo” … “La rinuncia per motivi economici tra le persone con livello di studio basso è pari al 69%” [sottolineature nostre, https://www.panoramasanita.it/2018/02/19/un-unico-ssn-ma-troppe-differenze-nelle-condizioni-di-salute-e-nellaspettativa-di-vita-degli-italiani/].

Muovendosi sulla stessa lunghezza d’onda e con i medesimi intenti mistificatori, il sito scienzainrete.it riporta il seguente grafico comunque indicativo, se rielaborato criticamente in accordo con i rapporti reali.

Grafico relativo al rischio di morte delle persone meno istruite rispetto ai laureati (rischio uguale a 1), per cause specifiche. Uomini e donne, 25-89 anni. Italia, 2012-2014.

 

Il sito riporta ancora: “su cento lavoratori non manuali solo 28 sono esposti a stress cronico mentre tra i lavoratori manuali sono 42. Idem con i rischi ambientali (le persone più deprivate hanno una probabilità doppia di risiedere vicino ad una discarica)”. [https://www.scienzainrete.it/articolo/salute-disuguale-italia/giuseppe-costa/2017-06-01].

Un dato da considerare con attenzione è quello relativo alla differenza tra l’aspettativa di vita nelle tre aree del Meridione, del Centro e del Nord Italia. Le rilevazioni ufficiali, le uniche di cui si possa effettivamente disporre, danno l’idea della permanenza e dell’incidenza della Questione Meridionale, ossia del particolare sistema di oppressione e sfruttamento a cui il Meridione è stato sottoposto storicamente ad opera del Settentrione, centro degli interessi economici imperialisti dell’economia e dello Stato italiani. Quello che invece non rilevano e quindi mistificano è relativo alle differenze di classe esistenti nello stesso Meridione. Se invece si fa uno sforzo teorico, ed eventualmente anche empirico, finalizzato alla considerazione di queste effettive differenze di classe, si potrà avere un quadro dell’effettiva consistenza della Questione Meridionale e del suo carattere sociale e di classe.

Il citato sito panoramasanità.it afferma: “In Italia si vive più a lungo a seconda del luogo di residenza o del livello d’istruzione: hanno una speranza di vita più bassa le persone che nascono al Sud, in particolare in Campania, o che non raggiungono la laurea. Inoltre chi ha un titolo di studio basso ha anche peggiori condizioni di salute. Queste disuguaglianze sono acuite dalle difficoltà di accesso ai servizi sanitari che penalizzano la popolazione di livello sociale più basso con un impatto significativo sulla capacità di prevenire o di diagnosticare rapidamente le patologie. Insomma il Servizio sanitario nazionale assicura la longevità degli italiani, ma non l’equità sociale e territoriale” … “in Campania nel 2017 gli uomini vivono mediamente 78,9 anni e le donne 83,3; nella Provincia Autonoma di Trento 81,6 gli uomini e 86,3 anni le donne. In generale, la maggiore sopravvivenza si registra nelle regioni del Nord-est, dove la speranza di vita per gli uomini è 81,2 anni e per le donne 85,6; decisamente inferiore nelle regioni del Mezzogiorno, nelle quali si attesta a 79,8 anni per gli uomini e 84,1 per le donne” [https://www.panoramasanita.it/2018/02/19/un-unico-ssn-ma-troppe-differenze-nelle-condizioni-di-salute-e-nellaspettativa-di-vita-degli-italiani/].

Il sito scienzainrete.it riporta: “Il Mezzogiorno del paese continua a peggiorare in termini di disuguaglianze e questo capita sia perché ci sono più persone che a causa della povertà di risorse e di capacità stanno peggio in salute, sia perché il contesto non sa moderare l’effetto sfavorevole della povertà sulla salute delle persone, intendendo come contesto l’ambiente ma anche il funzionamento della comunità e delle istituzioni, compresa la sanità; la concentrazione dei fattori di bisogno dovrebbe guidare meglio le scelte allocative, mentre le difficoltà dei contesti di “capacitare” le persone più povere di risorse è un problema comune a tutte le politiche di sviluppo del Mezzogiorno” (citato).

 Lo stesso sito riporta il seguente grafico relativo alle percentuali di rinuncia alle cure tra le regioni per ripartizione geografica. Italia, 2004-2015.

Un interessante articolo di Tiziano Costantini dell’11 luglio 2022, A Roma fino a tre anni di vita in meno se nasci in certi quartieri, riporta i dati di uno studio condotto dal Dipartimento di Epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio “che descrive la speranza di vita alla nascita e i differenziali socioeconomici di questo indicatore, evidenziando che ci sono fino a tre anni di differenza di speranza di vita alla nascita per gli uomini e due anni per le donne a seconda del Municipio di Roma in cui si risiede. Se andassimo a vedere le analisi per quartiere e se usassimo le 155 zone urbanistiche della capitale questi differenziali aumenterebbero ancora”…”Carla Ancona – epidemiologa ambientale del DEP Lazio – sottolinea correttamente come “non c’è da stupirsi del fatto che a Roma l’infarto acuto del miocardio, che molto ha a che fare con l’inquinamento atmosferico, sia ben più alto nel Municipio VI, mentre nel II, dove c’è più verde urbano l’accesso al ricovero è assai più basso”… “Come sottolinea Barbara Pizzo – Docente di Urbanistica alla Sapienza, Università di Roma, e Presidente di Roma Ricerca Roma -, “non possiamo sottovalutare il fatto che anche la distribuzione del personale medico-sanitario e delle posizioni organizzative tendono a seguire la stessa distribuzione residenziale della popolazione”. Roma è solo un esempio di una situazione generale che riguarda, spesso in modo assai più accentuato, anche centri urbani di dimensioni molto minori. Si pensi a tale proposito al noto caso di Taranto. Un articolo di Repubblica dell’11 maggio 2021 riportava: “Quattro ricercatori hanno sviluppato uno studio sulla mortalità a Taranto da cui emergono eccessi statisticamente significativi nei tre quartieri nord (Paolo VI, Tamburi e Borgo, ndr) più vicini all’area a caldo dell’Ilva (la più inquinante, costituita da cokerie, agglomerato, altiforni e acciaierie). Basta un solo dato relativo al 2019: 181 decessi in più rispetto all’atteso confrontando i quartieri di Taranto più esposti all’inquinamento con il dato regionale”.

Anche lavori di questo tipo risentono della loro impostazione e finalità classista, ciò nonostante possono offrire spunti per approfondimenti più mirati. Ad ogni modo emerge anche da dati come questi la stretta correlazione tra aspettativa di vita e condizione sociale. In questo caso abbiamo un nesso che emerge rispetto al fattore del grado d’inquinamento, della presenza e della copertura dei servizi sanitari, della qualità abitativa, ecc.

Vari studi, condotti generalmente all’estero, hanno poi dimostrato la maggiore incidenza delle morti e dei casi di Covid in rapporto alla differenza tra le diverse zone urbanistiche dei vari centri urbani, a testimonianza ulteriore del carattere di classe del diverso impatto delle malattie infettive e delle pandemie nelle diverse classi della popolazione. Ovviamente tutto il discorso si può inquadrare in termini più generali e sostanziali evidenziando l’elevato grado di incidenza del Covid sulle postazioni e sui luoghi di lavoro.  

PER UN FRONTE POPOLARE CONTRO IL FASCISMO, LA GUERRA E L’OFFENSIVA AI DANNI DEGLI INTERESSI ECONOMICI IMMEDIATI DEI LAVORATORI E DELLE MASSE POPOLARI

Il sistema capitalistico italiano non abdicherà mai spontaneamente e pacificamente dalla lotta per la sua sopravvivenza, anzi, diventerà sempre più feroce. Non si può aspettare passivamente. È necessario organizzarsi e mobilitarsi, socializzare la necessità della lotta, affermare il diritto alla ribellione, battersi e unire tutte le forze popolari e sinceramente democratiche per la costruzione, nel corso di una Nuova Resistenza, di un Nuovo Stato Democratico Popolare contro il fascismo, la guerra imperialista, contro l’offensiva del miserabile e spietato imperialismo italiano.

PER LA DEMOCRAZIA POPOLARE

 

[1] Si veda tra l’altro l’utile lavoro di Carlo Lallo: “Le disuguaglianze di classe sociale nella speranza di vita dopo il pensionamento in Italia, stime ed effetti sull’equità previdenziale [Carlo Lallo, Dottorato di ricerca in demografia, XXVI° Ciclo, Dipartimento di Scienze Statistiche, “La Sapienza” Università di Roma]. Si tratta  di un lavoro che però non sfugge ai formalismi matematico-statistici, con conseguente rilevante carenza dal punto di vista di un’adeguata concezione delle classi sociali e dal punto di vista di una sufficiente conoscenza e trattazione delle effettive condizioni di lavoro del proletariato e di altri settori sfruttati delle masse popolari. Il tutto si traduce in una sottostima dei valori e indici d’interesse.

[2] Il problema principale dello studio della mortalità differenziale per classe sociale in Italia è dato dal fatto che l’Istat non registra i decessi per “ex-professione” o reddito per cui non esiste una banca dati statistica della popolazione italiana che colleghi i morti con la loro classe. L’unica variabile ricollegabile allo status sociale che l’Istat fornisce è il livello di istruzione e su questo abbiamo alcuni studi interessanti: lo studio di Maccheroni del 2000 ad esempio ha stimato differenze nella speranza di vita a 35 anni tra opposti gradi d’istruzione di circa 7.5 anni per gli uomini e di 6.5 per le donne.139 Un altro studio di Luy et al. del 2001, basato su stime indirette, ha calcolato differenze di quasi 10 anni tra il livello di istruzione primaria e terziaria degli uomini italiani nel periodo 1990-1994” [Carlo Lallo, citato].

[3] Il sito notiziariochimicofarmacologico.it, riportando le conclusioni di uno studio del 2017 della prestigiosa rivista medico-scientifica The Lancet, afferma : «Lo status socioeconomico è importante perché include l’esposizione a diverse circostanze e comportamenti potenzialmente dannosi, che non si limitano ai classici fattori di rischio come fumo o obesità, sui quali si concentrano le politiche sanitarie – conclude Paolo Vineis, professore all’Imperial College London e coordinatore di LIFEPATH. – L’obiettivo principale del nostro progetto è quello di capire attraverso quali processi biologici le disuguaglianze sociali si traducono in disuguaglianze per la salute [sottolineatura nostra]. Così facendo potremo fornire accurate prove scientifiche a istituzioni sanitarie e decisori politici, che a loro volta potranno migliorare l’efficacia delle loro strategie di intervento sulla salute pubblica». Come si può vedere ci si arrampica sui vetri accennando alla necessità di esplorare presunti “meccanismi biologici”, al fine di sviare l’attenzione dalle molto tangibili diseguaglianze di classe e di colpevolizzare i proletari rispetto alle cause della riduzione della loro aspettativa di vita. [https:// www.notiziariochimicofarmaceutico.it/2017/02/01/svantaggi-socioeconomici-e-aspettativa-di-vita/].

[4] Nel 1963 Bernard Cohen diede la prima formulazione di Agenda Setting: “La stampa può nella maggior parte dei casi non essere capace di suggerire alle persone cosa pensare, ma essa ha un potere sorprendente nel suggerire ai propri lettori intorno a cosa pensare. […] Il mondo apparirà diverso a persone diverse in relazione alla mappa disegnata dai giornalisti, dai direttori e dagli editori dei giornali che loro leggono” (Cohen, 1963, p.13)

[5] Carl Hamblin (epitaffio sulla tomba dell’anachico Giuseppe Pinelli). La macchina del Clarion di Spoon River fu distrutta/ ed io spalmato di pece e coperto di penne,/per aver pubblicato questo il giorno in cui gli Anarchici/vennero impiccati a Chicago:/”Vidi una donna bellissima con gli occhi bendati/eretta sui gradini di un tempio di marmo./Grandi moltitudini passavano davanti a lei,/sollevando la faccia ad implorarla./Nella mano sinistra teneva una spada./Brandiva quella spada, colpendo a volte un bimbo, a volte un operaio, /ora una donna che tentava sottrarsi, ora un folle./Nella destra teneva una bilancia;/nella bilancia venivano gettati pezzi d’oro/da quelli che schivavano i colpi del1a spada./Un uomo con la toga nera lesse da un manoscritto:/”Ella non rispetta gli uomini.”/Poi un giovanotto col berretto rosso/balzò al suo fianco e le strappò la benda/.Ed ecco, le ciglia erano corrose/dalle palpebre imputridite;/le pupille bruciate da un muco latteo;/la follia di un’anima morente/le era scritta sul volto -/ma la moltitudine vide perché portava la benda.”

[6] Riproponiamo ancora il lavoro di Carlo Lalli che lascia intravedere, tra l’altro, il nesso esistente tra le varie controriforme pensionistiche e il relativo impatto in termini di incremento del logoramento lavorativo e conseguente riduzione dell’aspettativa di vita: “Ben lontani da ogni principio di equità classica, il sistema italiano si configura come un gioco con in palio più o meno anni di rendita pensionistica: una scommessa in cui alcuni, i più ricchi e avvantaggiati, escono da vincenti, altri, i più poveri e svantaggiati, da perdenti. Prendendo in prestito alcuni concetti dell’equità tributaria, il sistema previdenziale italiano si configura come un sistema “regressivo”, in cui gli individui con più “disponibilità” di speranza di vita ottengono un beneficio temporale di rendita maggiore degli individui con minore disponibilità. L’innalzamento delle soglie di anzianità contributiva e dei requisiti anagrafici legati all’incremento della speranza di vita media italiana impongono un sacrificio maggiore per i gruppi più poveri (economicamente e salutisticamente) rispetto a quelli più ricchi”.