Libretto, formato A5, 36 pagine, sulla storia e sullo stato della sanità in Italia. Il lavoro si propone di coniugare un’adeguata informazione con un’analisi, relativa allo sviluppo economico e politico del capitalismo italiano, che affronta criticamente le tesi correnti che si richiamano ad una certa visione del neoliberismo e della cosiddetta globalizzazione. Il lavoro si conclude sottolineando come la questione dello stato della sanità del nostro paese richieda la formulazione di un programma complessivo di lotta per  l’instaurazione di un nuovo Stato di Democrazia Popolare.

 

INDICE

 

  • LA RAPINA DELLE MASSE POPOLARI A FAVORE DELLE RENDITE

 

  • NEOLIBERISMO O CRISI GENERALE DELL’IMPERIALISMO?

 

  • NOTE PER UN’IMPOSTAZIONE MARXISTA DELLA STORIA DELLA SANITÀ IN ITALIA DALL’UNITA’ AL FASCISMO

 

  • LA SANITA’ IN ITALIA: DAL FASCISMO ALLA LEGGE 883/78

 

  • LA SANITA’ IN ITALIA CON L’INTRODUZIONE DEL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE

 

  • LA CRISI GENERALE DELL’IMPERIALISMO ED IL PASSAGGIO DELLE “PRIVATIZZAZIONI”

 

  • PRIVITATIZZAZIONI E RIPUBBLICIZZAZIONI DEI SERVIZI NELLO SVIILUPPO DELLA CRISI DEL CAPITALISMO MONOPOLISTICO DI STATO

 

  • LA DEVASTANTE CRISI DELLA SANITÀ IN ITALIA

 

  • LA MARCIA VERSO L’ ”AUTONOMIA DIFFERENZIATA” ED I PROVVEDIMENTI DEL GOVERNO FASCISTA MELONI
  • LO SFRUTTAMENTO IMPERIALISTA DELLE NECESSITÀ DI CURA ED ASSISTENZA DEI POPOLI OPPRESSI

 

  • LA QUESTIONE DELLA SANITÀ : IMPORTANTE PUNTO DEL PROGRAMMA DI LOTTA PER LA DEMOCRAZIA POPOLARE

 

 

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clikka qui: Gli artigli delle rendite sullo smantellamento della sanità

GLI ARTIGLI DELLE RENDITE SULLO SMANTELLAMENTO DELLA SANITÁ PUBBLICA

 

  1. LA RAPINA DELLE MASSE POPOLARI A FAVORE DELLE RENDITE

 

Per affrontare la questione delle cause del drastico ridimensionamento della sanità pubblica intervenuto nel nostro paese a partire dalla fine degli anni Settanta, dobbiamo prima di tutto andare a vedere quali sono le componenti della spesa pubblica.

 

La spesa pubblica, dal lato delle entrate consiste nel sistema delle tassazioni e nelle sottoscrizioni del debito pubblico. Dal lato delle uscite, può essere ricondotta alle seguenti voci: 1) l’insieme dei servizi sociali di pubblico interesse (definito “Stato sociale” sino a qualche decennio fa) coperti dallo Stato, 2) il finanziamento della macchina burocratico-repressiva e militare, delle spese per gli armamenti, delle amministrazioni statali, delle istituzioni e delle organizzazioni deputate all’esercizio dell’egemonia sul proletariato e sulle masse popolari, 3) le spese a favore dei vari settori dell’economia (contributi, sovvenzioni, contratti di vario genere), 4) gli interessi sul debito pubblico[1]. L’ultima voce è strettamente dipendente dall’entità del debito. Il finanziamento di tale debito avviene tramite l’emissione di strumenti finanziari (titoli di Stato) sottoscritti da soggetti interni ed esteri, privati e pubblici.

Astraendo quindi dal problema della natura e delle cause delle variazioni dell’entità della spesa pubblica e considerando la sostanza degli effettivi rapporti sociali e di classe, troviamo in primo luogo che è il proletariato che, con la tassazione diretta sul salario e quella indiretta sui beni di consumo, copre con il valore della sua forza lavoro i servizi sociali di pubblico interesse formalmente a carico dello Stato.

Il livello del salario del proletariato industriale definisce anche il livello dell’ammontare medio degli “stipendi” di vari settori di lavoratori dipendenti che non producono plusvalore, ma che vengono viceversa retribuiti con trasferimenti delle entrate pubbliche. In questo modo, il livello della tassazione dei salari finisce anche per determinare mediamente il livello della tassazione di una vasta massa di lavoratori non salariati. Si tratta per lo più di settori semiproletari dal punto di vista delle condizioni materiali, ma appartenenti agli strati inferiori della piccola borghesia. Parte rilevante di tali settori è costituita da lavoratori direttamente cointeressati all’incremento del livello delle entrate pubbliche.

 

Nel caso puramente teorico in cui il salario equivalga al valore della forza-lavoro, il proletariato e, conseguentemente, vari strati di lavoratori semi-proletari e piccolo-borghesi coprono esattamente con salari e “stipendi” l’importo dei servizi di pubblico interesse che devono ricevere.

Questo, appunto, solo sul piano teorico. Dal punto di vista pratico, viceversa, la borghesia e il suo Stato prelevano dal proletariato e dalle masse popolari molto più di quello che restituiscono nella forma di servizi. Sulla maggioranza della popolazione gravano i costi sempre crescenti dell’apparato statale, delle spese militari, dei contributi alle imprese, degli interessi sui prestiti, ecc. Ne consegue: 1) che di fatto abbiamo qui una prima causa della riduzione del salario al di sotto del valore della forza lavoro (con conseguente diminuzione dell’aspettativa di vita a paragone con quella degli strati sociali più privilegiati, 2) che tale riduzione è effetto di un prelievo forzoso sul salario operato dalla borghesia tramite il suo  Stato, 3) che in linea generale lo stesso Stato è un apparato parassitario che grava sul lavoro salariato e che estorce dal salario quote di reddito per trasferirle ad altri strati sociali privilegiati, 4) che in questo trasferimento non avviene nemmeno alcuna produzione di nuovo capitale ma, sotto questo profilo, solo un tentativo di  supportare la crisi generale del capitalismo e la relativa caduta di redditività delle imprese, 5) che diviene palese, se poniamo come data l’entità delle entrate statali, che il ridimensionamento dei servizi sociali d’interesse pubblico è strettamente dipendente dall’incremento delle altre voci relative alle uscite.

 

Le entrate statali, che gravano principalmente sulle masse popolari, sono quindi espressione di un prelievo forzoso dai caratteri parassitari e a vantaggio di vari strati sociali reazionari e delle più diverse forme di rendita (dalle spese per la burocrazia e per le forze armate, al finanziamento delle istituzioni e organizzazioni dedite all’esercizio dell’egemonia, ai contributi a imprese ormai operanti con una scarsa capacità produttiva, agli interessi sui titoli  pubblici a favore d’imprese, banche, Stati esteri e altri soggetti “risparmiatori”). 

 

 

 

  1. NEOLIBERISMO O CRISI GENERALE DELL’IMPERIALISMO?

 

Solo in parte assai relativa, nella crisi generale del capitalismo, le rendite derivanti dagli impieghi della spesa pubblica a danno del proletariato e delle masse popolari possono riconvertirsi in una forma di capitale[2] pronto per essere investito in  nuove e più avanzate tecnologie e infrastrutture utili alla modernizzazione e all’espansione dei monopoli industriali.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       

L’imperialismo, nell’acutizzarsi della sua crisi generale, pur nell’indissolubile intreccio tra industrie e capitale finanziario, pone sempre più in primo piano gli interessi e il ruolo delle rendite finanziarie. Questo si traduce, in particolare in paesi come l’Italia (già gravati da un abnorme peso relativo alle vecchie rendite residuo della storica arretratezza dello sviluppo capitalistico), in una crescente compressione delle spese pubbliche relative ai servizi sociali. Questa paradossale risposta di un capitalismo morente all’accentuarsi della sua crisi, che pone in primo piano il parassitismo e le rendite per tentare di contenere le proprie contraddizioni, è il vero motore del cosiddetto “neo-liberismo” e delle relative ondate delle privatizzazioni. Non c’è alcuna prospettiva di sviluppo e di modernizzazione nel quadro di tali tentativi, che però svolgono un effettivo ruolo pratico a breve termine. Infatti, si traducono praticamente nel trasferimento di risorse dal proletariato e dalle masse popolari ai settori più privilegiati della società, con la  conseguenza di contenere la concorrenza  tra i vari strati della borghesia e di operare per attenuare, almeno rispetto alle dinamiche interne alla stessa borghesia, la crisi egemonica e la crescente instabilità politica.

 

La storia dell’imperialismo e insieme ad essa, in modo ancora più netto ed evidente, quella del capitalismo italiano mostra come questo tipo di tentativi di far fronte alle situazioni di crisi economica hanno durata relativamente limitata. Il ritorno a forme di ripubblicizzazione dei servizi e, almeno in parte, del sistema industriale e finanziario è una necessità che si impone nel momento in cui si va a palesare il carattere parassitario della “privatizzazione” di servizi, banche e imprese d’interesse nazionale e il conseguente venir meno del loro ruolo in rapporto al processo produttivo. Ritorna allora la necessità, per la borghesia, di provvedere al salvataggio d’imprese sempre più in crisi e sempre meno competitive dal punto di vista degli stessi interessi dell’economia capitalista.

 

Questo processo di “ripubblicizzazione” viene allora nuovamente fatto pagare al proletariato e alle masse popolari. In tal caso, il tutto avviene in un quadro politico e istituzionale sempre più reazionario e repressivo, e in termini sempre più spiccatamente classisti e quindi qualitativamente scadenti per le masse popolari. In tale quadro si determina quindi anche una forma di “ripubblicizzazione” dei servizi sociali in funzione della necessità di contenere, in forma corporativa, lo sviluppo della conflittualità di classe.

 

La formula del “neo-liberismo”, di così vasto dominio pubblico, trova ampio seguito e consenso nei vari settori della sinistra e dell’estrema sinistra, per quanto non sia affatto espressione di una nuova fase di riproposizione delle politiche liberali ottocentesche. Queste ultime erano caratterizzate da un capitalismo ancora relativamente espansivo, dalla libera concorrenza e dalla relativa assenza del “Capitalismo di Stato” (ossia della fusione dei monopoli pubblici e privati con la macchina militare, repressiva, amministrativa, egemonica, ecc. dello Stato).

 

Questa teoria nega la possibilità di parlare d’imperialismo e di crisi generale del capitalismo e presenta, deformandoli apologeticamente, vari aspetti strutturali della fase morente del capitalismo come se derivassero da determinate scelte istituzionali, economiche, monetarie, fiscali, ecc. In realtà è proprio l’opposto visto che tali scelte sono solo espressione degli stessi elementi strutturali e dell’accentuarsi delle contraddizioni insite in essi.

 

I ceti intellettuali e politici “di sinistra” che sostengono la teoria del neo-liberismo sono espressione del blocco intellettuale generato dall’imperialismo, dove la condivisione dei medesimi temi e delle medesime chiavi di lettura si articola variamente, dal fascismo alle varie forme del revisionismo, alla luce della necessità di contrastare la tendenza alla rivoluzione proletaria mondiale e l’ideologia rivoluzionaria del comunismo.

 

 

 

  1. NOTE PER UN’IMPOSTAZIONE MARXISTA DELLA STORIA DELLA SANITÀ IN ITALIA DALL’UNITA’ AL FASCISMO

 

L’unità d’Italia si realizza sotto l’egemonia della monarchia sabauda, una sorta di autocrazia in mano ai grandi proprietari capitalistici del Piemonte e di parte della Lombardia subordinata al capitale finanziario francese. Capitalismo agrario di tipo prussiano al Nord e semi-feudalesimo nel Centro e nel Meridione si sono uniti per fronteggiare il pericolo di una rivoluzione popolare, operaia e contadina, che nel 1861 si sarebbe spinta sicuramente più avanti dei giacobini francesi.

 

In quest’Italia la sanità dell’epoca era in mano alla Chiesa che, grazie ai contributi e ai sovvenzionamenti provenienti da vari proprietari fondiari e dagli istituti finanziari ad essi collegati, la gestiva come formidabile strumento di controllo e di egemonia politica e culturale.

 

Il feroce regime coloniale imposto al Sud e nelle Isole, con la compressione dei consumi e delle condizioni di vita delle masse contadine a vantaggio dello Stato piemontese, creò le condizioni per quell’accumulazione originaria che, nelle mani dello Stato autarchico-liberale, promosse le prime forme di sviluppo manufatturiero e industriale nel Nord del paese, assicurandogli un’egemonia che non verrà mai meno nella storia d’Italia. La borghesia industriale entrò nel blocco dominante costituito sino a quel momento da burocrati, generali, proprietari fondiari capitalistici e feudali.

 

Questa transizione si è tradotta, nel 1887 e nel 1890, in due leggi promulgate da Crispi: legge del 22/12/1888 (assistenza sanitaria) legge del 17/07/1890 (unificazione degli istituti ospedalieri delle “Opere pie”). Si tratta di leggi che condizionarono tutto il corso successivo della sanità italiana sino al 1978, se non addirittura sino ad oggi. L’assistenza sanitaria, in gran parte sotto le voci “igiene ed assistenza” fu affidata ai Comuni che dovevano sostenerne il carico in base alle entrate.

La legge del  1890 trasformava le “Opere pie” in istituzioni pubbliche di beneficenza. Varie decine di migliaia di istituzioni controllate dalla Chiesa e dai proprietari fondiari, tra cui circa mille ospedali, passarono nelle mani dello Stato gestito dal vorace blocco costituitosi tra borghesia capitalista e rendite semi-feudali, senza però che, con questo, venisse reciso il legame con la Chiesa e la sua presenza egemonica nella sanità dell’epoca.

Con la legge dell’8 luglio 1883, industriali, proprietari fondiari, casse di credito e di risparmio daranno il via alla costituzione della “Cassa nazionale infortuni”, embrione del futuro INAIL, per l’assicurazione contro gli infortuni. Il tutto a carico del lavoratore e in seguito ad adesione volontaria.

Con la legge n. 350 del 1898 nasce anche la Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Si tratta della prima forma di assicurazione a carattere previdenziale, ma era del tutto volontaria. Fu solo tra le due guerre, nel 1919, che nacque la Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali, con conseguente previdenza obbligatoria per tutti i lavoratori dipendenti.

 

 

 

 

 

 

  1. LA SANITA’ IN ITALIA: DAL FASCISMO ALLA LEGGE 883/78

 

Lo stato della sanità e della previdenza in Italia rifletteva, alla fine dell’Ottocento, il liberalismo autocratico dominante, l’arretratezza dello sviluppo del capitalismo, la presenza nel Meridione del semi-colonialismo e del semi-feudalismo, il modello di sviluppo dipendente dal capitale finanziario estero e basato sull’uso dello Stato (finanziato dall’estorsione delle tasse a danno dei contadini, dei piccoli artigiani e degli operai) come leva per la “modernizzazione” e, in generale, la rivoluzione borghese incompiuta (con la genesi di questioni che si sono protratte sino ad oggi: Questione Meridionale, Vaticano, trasformazioni delle vecchie rendite, stato dei rapporti agrari nel Sud e nelle Isole, ecc.). Tutto questo mentre le principali potenze europee avevano già adottato, a fini di controllo ed egemonia sociale, sistemi sanitari ben più estesi, articolati e in grado di assicurare una copertura, pur minimale e ovviamente in un quadro insopprimibilmente classista, dei bisogni più elementari della maggioranza della popolazione. Se l’Inghilterra già nel 1848 provvedeva all’istituzione di un servizio nazionale di sanità pubblica, l’esempio più eclatante è quello tedesco. L’espansione dell’industria, della finanza e del potere della borghesia sotto la veste dello stato dei proprietari fondiari capitalistici (Junker) aveva portato, nella lotta per contenere l’influenza del socialismo e delle concezioni marxiste, all’istituzione di un sistema sanitario nazionale e all’introduzione dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie (attraverso la costituzione di casse sociali) e gli infortuni sul lavoro. La gestione degli ospedali durante il ventennio fascista continuava in gran parte a basarsi sui contributi a titolo di “beneficenza” di banchieri, industriali e proprietari fondiari e sull’affidamento agli istituti religiosi. Le spese per i ricoveri erano remunerate secondo rette giornaliere stabilite da ciascun ente ed erano a carico dei Comuni per gli iscritti nell’elenco dei poveri e degli istituti mutualistici per i loro assicurati. Il regime, con azione chirurgica, avviò un’opera che apparentemente assumeva i caratteri del ridimensionamento e dello smantellamento di una serie di enti assistenziali. In realtà si trattava di pressioni e ricatti volti a determinarne un disciplinamento funzionale agli indirizzi della politica fascista. Venne quindi rafforzato il controllo dei Prefetti sulle associazioni assistenziali e venne sciolta la Federazione nazionale delle cooperative e mutue.

Le misure di assistenza avevano il vincolo di gravare il meno possibile sull’imprenditoria e ciò funestò in modo particolare la medicina del lavoro. La ricerca scientifica anziché focalizzarsi sugli effetti che l’organizzazione industriale provocava sulla salute degli operai, si indirizzò sugli aspetti clinici. Lo scopo era quello di evitare in qualsiasi modo di gravare sugli imprenditori per le pessime condizioni sanitarie delle fabbriche, condizioni che peggiorarono dopo lo scoppio della crisi economica del 1929, quando i sindacati di regime accettarono ritmi e ambienti di lavoro più degradati. Il fascismo non apportò nel complesso modificazioni di rilievo. Le casse mutue vennero estese ed alcune di esse acquisirono particolare rilievo[3] permanendo sino alla legge del 1978, che ha sancito formalmente la costituzione del “sistema sanitario nazionale”.

Parallelamente si istituirono l’INFPS e l’INFAIL[4] (che successivamente continuarono ad operare come INPS e INAIL). La formazione di questi due monopoli di Stato era espressione dello sviluppo dell’imperialismo successivo alla fine della prima guerra mondiale, che trovò un ulteriore impulso con la crisi della fine degli anni Venti. In Italia questo processo fu però segnato, in modo molto più netto che nei principali paesi europei, dal carattere marginale e predatorio del capitalismo imperialistico italiano, dovuto alle costanti di un modello di sviluppo che ancora lo caratterizzano. Quindi l’INPS e l’INAIL sono nati come enti monopolistici di Stato volti a escogitare e sancire misure previdenziali e assicurative atte a tradursi in uno scaricamento dei relativi sul valore della forza lavoro, contribuendo alla sua riduzione al di sotto del salario (con conseguenti riflessi sullo “stipendio” di altre categorie di lavoratori dipendenti) e all’oscillazione del livello di sostentamento della massa dei lavoratori in direzione della soglia di sopravvivenza. Enti monopolistici che hanno sempre operato, sino ad oggi, anche dirottando parte dei prelievi delle tassazioni e dei contributi dei lavoratori a favore di varie forme di supporto alle imprese, con la conseguenza di contribuire a generare quello scarto tra entrate e uscite, che è sempre stato assunto come pretesto per schiacciare le pensioni dei lavoratori e per trovare tutti i modi, legali e truffaldini, per non riconoscere infortuni sul lavoro e malattie professionali.

 

Dopo la seconda guerra mondiale, con il promulgamento della Costituzione, abbiamo l’introduzione dell’Art. 32, che recita “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Fino alla legge 883/78, ancora una volta, non ci saranno però modifiche di rilievo, si proseguirà infatti con l’assistenza sanitaria divisa tra l’attività dei Comuni con le liste dei poveri e l’assistenza delle Casse Mutue.

 

 

  1. LA SANITA’ IN ITALIA CON L’INTRODUZIONE DEL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE

 

L’Art. 32 verrà considerato attuato dalla stessa legge 883/78, che istituisce formalmente il “Sistema Sanitario Nazionale”. In effetti tale legge, a fronte di una situazione finanziaria prodottasi nel corso di svariati decenni, si riproponeva essenzialmente la ristrutturazione di un sistema sanitario classista e parassitario incentrato prevalentemente su un insieme disomogeneo di “casse mutue”.

 

Tale legge rappresentava una misura improrogabile, da un lato vista la disastrosa situazione finanziaria e, dall’altro, considerato il procedere della rivoluzione passiva, che si era riproposta la stabilizzazione politica e la relativa sconfitta delle lotte potenzialmente rivoluzionarie degli anni Sessanta e Settanta. Sconfitta delle lotte da determinare, dunque, anche tramite il riassorbimento in senso corporativo di alcune istanze e rivendicazioni dei movimenti di quei decenni.

 

Nonostante si presentasse come garante dell’equità dell’accesso al servizio, dell’uguaglianza di trattamento, dell’uniformità territoriale, dell’universalità di copertura e della controllabilità e partecipazione democratica, la legge 883/78, al di là degli intenti conciliatori sotto il profilo egemonico, non ha affatto risolto i problemi di fondo della sanità italiana, né ha mai messo in discussione il suo carattere classista e quindi, comunque, connotato in senso discriminatorio e criminale del sistema sanitario nazionale.

 

Un sistema sanitario che, in un modo o nell’altro, è tenuto a rispettare vincoli di bilancio imposti dalla borghesia e dalle rendite, non può che comprimere le più elementari necessità di cura e assistenza della maggioranza della popolazione, con conseguenti elevati costi in termini di sofferenze, di vite umane e di riduzione dell’aspettativa di vita per le masse popolari. Questo dirottando, anche per quanto attiene alla stessa sanità, significativi importi a favore degli strati più privilegiati in termini di fondi e prestazioni. 

 

Possiamo affermare che il sistema sanitario, dall’unità ad oggi, è stato espressione ed esito sia dello specifico modello di sviluppo del capitalismo imperialistico italiano, predatorio e parassitario, sia  delle risposte passivo-rivoluzionarie. In particolare si tratta di quelle risposte che si sono determinate rispetto ai passaggi del biennio rosso, della resistenza e delle lotte degli anni Sessanta e Settanta, volte quindi a contrastare, disgregare, infiacchire e integrare[5] le rivendicazioni espresse da quanti combatterono in quelle fasi più acute della lotta di classe del nostro paese[6].

 

 

  1. LA CRISI GENERALE DELL’IMPERIALISMO ED IL PASSAGGIO DELLE “PRIVATIZZAZIONI”

 

Negli ultimi decenni del secolo scorso, il manifestarsi su vasta scala della crisi generale dell’imperialismo e della crisi egemonica nei decrepiti sistemi multipartitici dei principali paesi occidentali ha determinato la crisi delle forme pubbliche del capitalismo di Stato che, in particolare, ha messo a nudo le debolezze strutturali della grande industria italiana incapace ormai di reggere il passo con le altre potenze imperialiste.

Questa situazione si è accompagnata all’idea, da parte delle varie potenze imperialiste e socialimperialiste, che si era assestato un colpo decisivo contro il socialismo e che era arrivato il momento di portare un attacco a fondo contro le lotte dei popoli oppressi, contro il proletariato, contro i movimenti di opposizione, contro la democrazia e la prospettiva politica del comunismo. In questo quadro, si è ritenuto di poter rinunciare a esercitare un’egemonia fondata sull’integrazione di strati sociali intermedi, che erano stati interni ai movimenti e ai conflitti politici e sindacali con l’obiettivo di strumentalizzare la lotta del proletariato e delle masse popolari per propri scopi e interessi.

Da cui anche sempre più il passaggio a forme passivo-rivoluzionarie populiste e tendenzialmente fasciste, con lo scopo di egemonizzare il malcontento operaio e popolare o, perlomeno, di determinarne la frammentazione. Al posto delle forme pubbliche del capitalismo di Stato si sono rilanciate quelle private, per altro sempre presenti e comunque sempre maggioritarie.

 

 

  1. PRIVITATIZZAZIONI E RIPUBBLICIZZAZIONI DEI SERVIZI NELLO SVIILUPPO DELLA CRISI DEL CAPITALISMO MONOPOLISTICO DI STATO

 

La dissoluzione dei residui di un ordinamento liberale sotto l’egemonia degli USA e del Vaticano e con il riciclaggio di parte consistente delle componenti politiche, burocratiche e intellettuali del precedente regime monarco-fascista, peraltro instaurato grazie alla connivenza del PCI di Togliatti, si è realizzato in particolare a partire dalla seconda metà degli anni Settanta a suon di leggi speciali e riforme istituzionali, alle quali si è puntualmente accompagnata la devastazione del cosiddetto “Stato Sociale”. 

Tutto questo è stato per lo più letto, appunto, con le lenti deformi delle categorie del “neo-liberismo”. Si è parlato di ridimensionamento del ruolo dello Stato, del ritorno del mercato, di una nuova fase di liberalizzazione degli scambi a vantaggio dello sviluppo dell’iniziativa privata capitalistica che, nel quadro di un presunto processo di espansione caratterizzato dalla globalizzazione, sarebbe arrivato a penetrare nei servizi sociali di pubblico interesse, impossessandosene al fine di incrementare i propri profitti. Si tratta di una visione superficiale che nasconde i processi reali, particolarmente netti ed evidenti nel nostro paese. In particolare, questa visione sostiene che l’impresa privata, entrando in competizione con la sanità pubblica, è in grado di generare investimenti capaci di generale surplus di capitale, investendo nei servizi sociali o, nello specifico, in quelli sanitari. In realtà, i cosiddetti processi di “privatizzazione” non sono altro che un trasferimento diretto, a favore di determinate tipologie di rendita, di importi di spesa pubblica. Si tratta di una relazione che non è capitalistica ma parassitaria, di rapina dei redditi delle masse popolari. Lo Stato, ossia in questo caso la ripartizione della spesa pubblica, rimane comunque al centro, anche se il tutto appare nella forma dell’entrata dei privati nella sanità.

Si tratta di esternalizzazione di servizi comunque a carico dei lavoratori che, in tal modo, vengono truffati e derubati due volte: in primo luogo con le tasse dirette e indirette, in secondo luogo con i costi costantemente crescenti dei servizi sanitari. Questa politica non fa che riproporre, in forma mutata, la sostanza classista e squilibrata del sistema sanitario vigente in Italia a partire dagli inizi del secolo scorso, esploso appunto negli anni Settanta a causa dell’indebitamento crescente.

Quando scoppierà nuovamente la crisi dell’attuale sistema sanitario, allora per salvare le voraci rendite che avranno provveduto a intascare a più non posso contributi e sovvenzioni, si ritornerà a qualche forma di ripubblicizzazione più organica della sanità, badando bene però di far pagare anche questo ulteriore passaggio alle masse proletarie e popolari. In questo senso i cicli delle “privatizzazioni” e delle “statalizzazioni” non solo della sanità, ma anche di altri servizi e persino di settori della stessa economia monopolistica (si veda l’esemplare vicenda del Settore delle Partecipazioni Statali), in occasione di ogni transizione e svolta si alternano nelle diverse fasi e situazioni in modo da segnare nuove forme di attacco alle condizioni di vita e ai redditi della maggioranza della popolazione.

 

 

  1. LA DEVASTANTE CRISI DELLA SANITÀ IN ITALIA

 

In seguito alla promulgazione della Legge 883/78, le varie integrazioni e modifiche che ne hanno velocemente mutato le disposizioni si sono tradotte in ulteriori pesanti attacchi alle masse popolari con conseguente ulteriore limitazione al diritto alle cure sanitarie e assistenziali.

Parallelamente è cresciuto anche il ruolo delle società di assicurazione che forniscono servizi in campo sanitario, alimentato dagli incentivi offerti dal welfare aziendale con la compressione dei contratti aziendali e il relativo “pagamento in servizi” degli importi dovuti ai lavoratori, con la defiscalizzazione dei contributi pagati dalle imprese, ecc. Sono così proliferati velocemente (oltre 300) i fondi sanitari di cui l’85% riassicurati e/o gestiti da compagnie assicurative con più di 10 milioni di iscritti soprattutto nel Nord-ovest e nel Nord-est, cioè nelle regioni più ricche del Paese.

La spesa sanitaria per abitante, nel 2022, è stata nel nostro paese di 4290 dollari, poco più della metà della Germania con oltre ottomila dollari (dati Ocse). La tutela della salute è stata ridotta alla logica delle prestazioni sanitarie, limitando il ricorso alla prevenzione al fine di perseguire i criteri di sostenibilità finanziaria, che ha prodotto negli anni tagli per 37 miliardi di euro, 30.000 infermieri e 250.000 medici perduti dal 2010. Si fa sempre quindi più ricorso: a) ai dottori gettonisti, ricorso molto costoso e disfunzionale al SSN; b) alle visite in “libera professione” negli ospedali e nelle strutture pubbliche; c) al welfare aziendale dirottato ai privati; d) ai tagli, che hanno avuto come conseguenza: una maggiore spesa a carico dei cittadini; la rinuncia, dovuta soprattutto a problemi economici, a prestazioni sanitarie; liste di attesa molto lunghe e crescenti difficoltà nel raggiungere i luoghi di erogazione del servizio drasticamente ridotti di numero.

Secondo i dati della magistratura della Corte dei Conti, il deficit complessivo del SSN è cresciuto notevolmente; nel 2020 ammontava a 800 milioni di euro, l’anno successivo registrava 1,025 miliardi di euro e nel 2022 arrivava a 1,469 miliardi di euro. I bilanci di 15 regioni sono in rosso, i “livelli essenziali d’assistenza” [LEA] sono insufficienti in 7 regioni e dei 500 milioni di euro stabiliti per l’eliminazione delle liste di attesa sono stati spesi solo il 70%. Il tutto dimostra inconfutabilmente come la spesa sanitaria sia stata sempre più sperperata a vantaggio delle rendite parassitarie.

Questa scellerata e cinica politica è stata attuata senza soluzione di continuità da tutti i governi che si sono succeduti. Il ridimensionamento della sanità si è accelerato su richiesta dell’Unione Europea che, per tutelare gli interessi dei vari paesi sul debito pubblico dell’Italia, ha operato imponendo precise garanzie. Ovviamente, non è stata direttamente l’UE che ha causato il disavanzo pubblico. L’UE ha operato come un consorzio d’imprese finanziarie, che non esita a sanzionare spietatamente il debitore insolvente, ma non ha creato il “debito”. Cosa quest’ultima ovviamente occultata da nazionalisti e rosso-bruni di ogni risma.

I governi Craxi e Fanfani, a partire dal 1983, imposero pesanti tagli e il blocco delle assunzioni e nel 1987 si reintrodusse per decreto, per la prima volta dopo il 1969, il numero chiuso a medicina, ripristinando la situazione del periodo fascista, quando alla facoltà di medicina potevano accedere solo i diplomati del liceo scientifico e del liceo classico. Conseguenza del numero chiuso, la mancanza di migliaia di medici e infermieri, tanto che Conte, durante la pandemia da Covid, ha fatto ricorso a dottori in pensione, specializzandi e laureandi in medicina.

Oggi il presidente della regione Calabria ha persino fatto ricorso a medici in servizio soprattutto nei pronto soccorso, da cui i nostri medici scappano per via dei massacranti turni di lavoro.

A partire dagli anni Novanta, i governi Goria, Dini, Prodi, D’Alema, Amato, Monti hanno avviato una serie di controriforme che hanno trasformato le strutture pubbliche da Unità Sanitarie Locali USL in Aziende Sanitarie Locali ASL in concorrenza fra loro, favorendo l’adozione di logiche concorrenziali, ossia caratterizzate da pesanti ricadute sulle classi popolari e sulle aree storicamente meno industrializzate del paese, in chiave discriminatoria e classista. È caduta così l’apparenza della garanzia di livello costituzionale del diritto universale alla salute e all’accesso alla cura e all’assistenza. Le masse popolari hanno subito tutto questo e in più continuato a finanziare le aziende sanitarie locali non solo attraverso la fiscalità generale, ma anche attraverso costosi ticket per medicine, superticket per molte analisi e prestazioni a totale carico degli assistiti e quindi appannaggio solo di chi se lo può permettere.

Da non dimenticare la dilagante corruzione, comprensibile solo se si considera la natura particolare del modello di sviluppo dello Stato capitalistico italiano, fondato sulla rapina dei redditi degli operai e dei contadini prima e dell’insieme delle masse popolari oggi, a vantaggio della salvaguardia dei profitti dei monopoli e delle rendite che, in tal modo, acquisivano una insopprimibile natura parassitaria.

Basti pensare, tra l’altro, a De Lorenzo, ex ministro PLI, ex direttore generale del servizio farmaceutico nazionale del Ministero della Sanità coinvolto nel 1989 nello scandalo di Tangentopoli e condannato a 5 anni per associazione a delinquere finalizzata al finanziamento illecito dei partiti e corruzione in relazione a tangenti per un valore complessivo di circa 9 miliardi di lire ottenute da industriali farmaceutici dal 1989 al 1992. Oggi è il nuovo presidente della European cancer patient coalition. In combutta con De Lorenzo, il piduista e direttore del sistema farmaceutico Duilio Poggiolini, condannato per tangenti, soprannominato re Mida perché gli sono stati trovati in casa soldi e lingotti d’oro nascosti in poltrone e divani. Recente il caso Formigoni, ex presidente della Lombardia condannato per corruzione a 5 anni e 10 mesi di carcere.

Nella fase più acuta della pandemia, il sistema sanitario è praticamente collassato. Qui il suo carattere discriminatorio e classista si è espresso allo stato puro. Le masse popolari sono state lasciate prive delle tutele più elementari, come per es. le forniture di mascherine e bombole d’ossigeno. Spesso sono state costrette a trasformare le proprie abitazioni in ambulatori improvvisati, con il dramma della gestione di situazioni terminali o potenzialmente tali. Solo l’intervento della burocrazia politica e militare ha fatto sì che, in condizioni di assenza di diritti personali, costretti ad obbedire al coprifuoco e alle norme da stato “d’assedio”, le masse popolari  non scendessero in campo manifestando contro l’infamia di un sistema sanitario che condannava parte non indifferente dei più deboli, degli anziani, degli invalidi, dei malati ad una fine tragica, mentre nel contempo si riservavano i farmaci più promettenti e le cure specialistiche agli strati privilegiati della società. Durante la fase acuta della pandemia si è quindi evidenziato anche lo stretto legame tra la sanità e il cosiddetto “ordine pubblico”. Sia nel senso che la stessa sanità classista deve essere funzionale al mantenimento dell’ordine pubblico e quindi al contenimento della conflittualità sociale, sia nel senso che, dove la sanità viene meno, allora subentrano la polizia e l’esercito per impedire che il crollo della sanità si traduca in iniziativa e mobilitazione popolare.

       Il quadro attuale del cosiddetto “SSN” è quanto mai preoccupante; il DEF e la NaDEF 2022 hanno previsto nel triennio 2023-2025 la riduzione della spesa sanitaria media dell’1,13% per anno e un rapporto spesa sanitaria/Pil nel 2025 del 6%, ben al di sotto dei livelli pre-pandemia. Tutto questo mentre avanza il progetto dell’ “Autonomia differenziata”, già avviato nel 2018 dal governo Gentiloni, che attribuiva crescente autonomia alle regioni richiedenti ai sensi dell’art.116, comma 3 della Costituzione . Tale articolo prevede anche la sanità tra le 23 materie su cui le regioni possono operare con forme e condizioni particolari di autonomia.

 

 

  1. LA MARCIA VERSO L’ ”AUTONOMIA DIFFERENZIATA” ED I PROVVEDIMENTI DEL GOVERNO FASCISTA MELONI

 

Se ricostruiamo la storia dell’autonomia differenzia, risulta chiara la sua natura di progetto antiproletario e antidemocratico oltre che di disegno politico e sociale volto a modificare in maniera ulteriore e profonda gli assetti istituzionali e di classe nel nostro Paese. L’autonomia differenziata viene riconosciuta a livello legislativo dalla riforma dell’Articolo V della Costituzione promossa dal governo di centrosinistra di Giuliano Amato nel 2001, che cerca di occupare il progetto federalista imposto dalla Lega inseguendola sul suo terreno. Nella legislatura successiva il centrodestra rilancia il disegno autonomista, nasce la devolution di Calderoli approvata nel 2005 e bocciata nel 2006 con il referendum. Nel 2017 l’Emilia Romagna apre il negoziato con il governo Gentiloni per la concessione dell’autonomia regionale in 15 materie, ottenendo una pre-intesa aperta anche al Veneto e alla Lombardia. Nel 2023 il DDL Calderoli riceve l’ok dal CDM, dove si stabilisce di trattenere su territorio regionale il residuo fiscale, cioè lo scarto tra le entrate fiscali che lo Stato preleva da una regione e le risorse che vengono spese in quella regione, avvantaggiando le regioni del Nord che hanno un residuo fiscale alto. In particolare, è previsto un avvio della regionalizzazione con un finanziamento dei servizi trasferiti calcolato sulla “spesa storica”. In tal modo si sottrarrebbero risorse ai territori del Sud già in grande affanno avviandosi verso  quella che è stata definita “secessione dei ricchi”. Si prefigurano tasse regionali e il trattenimento dei tributi su base territoriale, spezzando ogni idea di perequazione. Siamo di fronte a un attacco spietato al diritto alla salute delle masse popolari, che accentuerà lo storico divario esistente tra Nord e Sud, in conflitto con l’art. 32 della Costituzione secondo cui tale diritto deve essere formalmente garantito gratuitamente e a tutti. Esempio eclatante quello dei Lea e Lep, che non sarebbero di competenza dello Stato, bensì delle Regioni, per cui ogni Regione potrebbe decidere quali prestazioni erogare gratuitamente e quali no.

Le liste d’attesa dovute alla carenza di personale, oggi ancora più lunghe e imputabili in parte al blocco delle prestazioni durante il Covid, con l’Autonomia differenziata si allungheranno ancor di più proprio in quelle Regioni che presentano il quadro più critico. La forbice tra l’offerta sanitaria del Nord e quella del Sud si allargherà, aumentando il rischio di mobilità passiva.

Essendo le prestazioni sanitarie per la maggior parte a carico delle Regioni di provenienza, tali prestazioni, nel caso risultassero disponibili o disponibili in quantità corrispondente alle necessità solo nelle regioni del Nord o del Centro Nord, non verranno prese in carico, se le regioni di provenienza dei pazienti non saranno in grado di assicurare i relativi pagamenti alle regioni dei centri di ricovero. Questa logica serpeggia pesantemente già da almeno un decennio, con esiti mai adeguatamente indagati e denunciati. 

Bisogna inoltre tenere anche presente che spostarsi per motivi di salute ha un costo molto alto per il paziente. Costo elevato soprattutto per la classe proletaria, già provata da affitti elevatissimi, paghe al di sotto della sussistenza, lavori precari, abolizione del reddito di cittadinanza.

Le conseguenze negative, oltre che sui destinatari delle prestazioni sanitarie, si riverserebbero anche sui medici, oggi pagati secondo un contratto nazionale ma, con l’autonomia, in balia di ogni Regione che potrà scegliere in modo autonomo la retribuzione, il tipo di contratto, come e dove farli lavorare.

 

Il SSN è dunque oggi al collasso. Gravi sono anche gli interventi in proposito dell’attuale governo neofascista: a) l’abolizione dell’Irap , fino ad oggi destinata a finanziare la sanità, b) l’estensione della flat-tax, contro il principio della progressività dell’art.53 della Costituzione[7], ridurrà le risorse pubbliche per la salute e aumenterà le agevolazioni per le assicurazioni private a cui possono accedere solo i più abbienti; c) il mancato aumento del tetto di spesa per il personale sanitario, che aumenterà in modo esponenziale i contratti precari, la fuga verso strutture “private” o verso altri paesi da parte del personale che lavora nei settori più specialistici e/o usuranti e il ricorso ai costosissimi medici a gettone.

Di conseguenza, l’offerta dei servizi, già oggi molto carente, sarà sempre minore e i cittadini saranno costretti a ricorrere sempre più alle “visite in libera professione” nelle strutture pubbliche, vista la lunga lista d’attesa per le visite specialistiche e la diagnostica.

Salta così non solo l’accesso alle cure mediche, ma anche la prevenzione, con la conseguente diminuzione dell’aspettativa di vita. Risulta pertanto oltraggiosa la proposta del direttore dell’Inps di diminuire l’importo della pensione in relazione all’aspettativa di vita.

Nonostante le richieste delle Regioni di 4 miliardi di euro per la Sanità, cifra assolutamente insufficiente per le necessità del SSN, probabilmente ne arriveranno due, rimanendo così in linea con la previsione di spesa per il triennio 2023-25 del Governo Draghi (spesa in rapporto al Pil al di sotto della media europea). La Presidente del Consiglio finge di non sapere che gli appalti e gli affidamenti esterni costano 19,3 miliardi di euro in un quadrimestre (dati Anac) e la corruzione fattura 6 miliardi l’anno; si accanisce invece contro i più poveri abolendo il reddito di cittadinanza, elargendo, bontà sua, la misera tessera di 380 euro circa una tantum o offrendo un carrello tricolore per affrontare il notevole rialzo dei prezzi nel settore alimentare. Il risultato è un miserabile risparmio di pochi centesimi.

 

 

  1. LO SFRUTTAMENTO IMPERIALISTA DELLE NECESSITÀ DI CURA ED ASSISTENZA DEI POPOLI OPPRESSI

 

La devoluzione della sanità si fonda su postulati tecnocratico-fascisti quali: il modo autoritario e dispotico di pensare e concepire in senso amministrativo la sanità; la cerchia autocratica del governatore e del personale manageriale, rispetto alla quale il cittadino e gli operatori sono assoggettati. Questa devoluzione è peraltro anche inquadrabile, più in generale, in un contesto che va al di là del nostro Paese e investe i SSN dei paesi imperialisti.

 

L’imperialismo come fase suprema del capitalismo, secondo la definizione di Lenin, è in primo luogo una fusione tra capitale industriale e capitale finanziario, che si traduce nello sviluppo di una forma corrispondente di capitale monopolistico. Tutto questo contiene in embrione anche le altre leggi essenziali dell’imperialismo.

Nei paesi come l’Italia anche le rendite di vecchio tipo appartengono al capitale finanziario. Inoltre, l’imperialismo italiano può riprodursi, ovviamente a danno delle masse popolari del proprio paese e dei popoli dei paesi oppressi, solo se riesce a occupare le posizioni sostanzialmente marginali che le principali potenze imperialiste lasciano a sua disposizione. In questo modo l’imperialismo italiano è appunto marginale e semi-dipendente. Ciò significa che il capitale monopolistico che domina nel nostro paese è strettamente intrecciato con il capitale internazionale e, in parte, dipendente da esso per i propri stessi sovra-profitti.

 

L’imperialismo però si è sempre più sviluppato nei principali paesi del mondo, dopo la prima guerra mondiale e in particolare in seguito alla fine degli anni Venti, come “capitalismo monopolistico di Stato” [CMS]. Qui il CMS rappresenta la fusione dei monopoli imperialisti con lo Stato. Questo è un processo oggettivo insito nella natura dello sviluppo del capitalismo, quindi non ha nulla a che fare con le questioni come quelle se il CMS abbia una base economica nazionale più o meno preponderante, se abbia o meno la forma di un rapporto tra aziende monopolistiche ‘private’ e Stato o se, invece, assuma una forma caratterizzata dalla statalizzazione o nazionalizzazione delle imprese monopolistiche.

 

In effetti, in senso lato il CMS è caratterizzato da una contraddizione sempre più acuta tra la tendenza alla socializzazione della produzione e dei servizi e l’estorsione del plusvalore, la rapina dei redditi delle masse popolari e l’accaparramento dei sovraprofitti imperialisti.

 

Questo significa che le forme “privatistiche” o “pubblicistiche” [8] del CMS sono destinate a entrare sempre più velocemente e profondamente in crisi, alimentando l’impoverimento delle masse popolari e dei popoli dei paesi oppressi, la tendenza al fascismo, alle imprese imperialiste e alla guerra inter-imperialista.

 

Il CMS dei paesi imperialisti opera quindi, per rispondere alla propria crescente crisi, anche sul terreno della sanità, in funzione della rapina delle risorse economiche e dei redditi dei popoli di tutto il mondo. Ad esempio, l’International Finance Corporation, la Banca mondiale e la Banca europea per gli investimenti erogano ingenti fondi pubblici a vari paesi dichiarando ipocritamente di promuovere lo sviluppo economico nel Sud del mondo, combattere la povertà e migliorare i servizi sanitari. La realtà è ben diversa da quanto sostenuto da parte di tali istituzioni finanziarie (guidate da paesi come Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia). Secondo quanto riportato dalle indagini Oxfam, si è in presenza infatti di un impatto drammatico sulla vita della popolazione dovuto alla gestione dei finanziamenti erogati a gruppi ospedalieri e ad altre società sanitarie. I servizi sanitari si trasformano in strumenti per accumulare patrimoni ai danni di utenti e pazienti costretti ad indebitarsi per il pagamento di prestazioni sanitarie. I prezzi dei medicinali sono fuori dalla portata della maggior parte dei cittadini. Si negano le cure, anche in caso di urgenza, a chi non può permettersele. Si fanno pressioni sui pazienti affinché si sottopongano a procedure mediche non necessarie e costose. Non esiste, e lo si fa scientemente, alcuna prevenzione delle violazioni dei diritti umani, compreso il traffico di organi da parte del personale sanitario.

 

 

  1. LA QUESTIONE DELLA SANITÀ : IMPORTANTE PUNTO DEL PROGRAMMA DI LOTTA PER LA DEMOCRAZIA POPOLARE

 

In sintesi, le caratteristiche della sanità in Italia, derivanti dallo specifico modello di sviluppo del capitalismo imperialistico italiano, attestano l’impossibilità di risolvere la crisi nel quadro di un capitalismo morente e di un sistema politico decrepito e reazionario. La crisi della sanità è strutturale ed irreversibile, quindi un’effettiva risposta a tale situazione è inerente all’attuazione di un Programma di Democrazia Popolare capace di rispondere anche alle necessità di fondo delle masse popolari. 

Da cui la necessità, anche rispetto alla questione della lotta per una sanità realmente al servizio della maggioranza della popolazione, della creazione di un fronte unico di mobilitazione fra le forze democratiche e progressiste, comuniste, socialiste e libertarie contro il capitalismo monopolistico e contro il fascismo, per una Nuova Resistenza e per uno Stato di Democrazia Popolare.

 

PER LA DEMOCRAZIA POPOLARE

www.perlademocraziapopolare.com

 

perlademocraziapopolare@protonmail.com

 

[1] La classificazione proposta non evidenzia come ci siano varie forme di sovrapposizione, per es., i servizi sociali d’interesse pubblico a carico dello Stato si intrecciano anche con le istituzioni pubbliche deputate all’esercizio dell’egemonia sulle masse popolari.

[2] Se consideriamo per es. le grandi opere come la TAV, il BBT (Tunnel del Brennero), il prospettato Ponte di Messina, il tutto in linea per altro anche con le costanti del modello di sviluppo capitalistico italiano, troviamo non tanto un interesse alla promozione degli investimenti produttivi, quanto un indistricabile intreccio tra parassitismo imprenditoriale, rendite,  clientelismi, politiche espansionistiche e guerrafondaie (si veda l’articolo PONTE DI MESSINA, TAV, BBT: LE GRANDI OPERE AL SERVIZIO DELLA GUERRA IMPERIALISTA).

 

[3] Per es. l’ente mutualità fascista-Istituto nazionale assistenza malattie, che diventerà poi Istituto nazionale di assicurazione malattia (INAM), la più grande e potente fra le Casse mutue.

[4] Che nasce nel marzo 1933, dall’unificazione della Cassa nazionale infortuni e delle Casse private di assicurazione.

[5] Per quanto possibile in generale, ma  comunque principalmente per una minoranza di aristocrazia operaia e dei servizi.

[6] Questo a partire dalla lotta per affermare in Italia il potere dei soviet durante e dopo la prima guerra mondiale, e quella per abbattere il regime fascista. Una lotta molto dura, continuata durante gli anni Sessanta e Settanta, contrassegnati da una lunga scia di assassinii di Stato, stragi fasciste, misure repressive e liberticide, segno che la nostra Repubblica era nata molto male, avendo permesso agli ex fascisti di occupare, sotto la direzione degli USA e grazie alla connivenza e al collaborazionismo dei revisionisti togliattiani, i ruoli apicali dello Stato.

 

 

[7] “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

[8] In un paese come l’Italia, il CMS si è sviluppato alternando fasi di più accentuata “privatizzazione” a fasi, anche relativamente estese, di “statalizzazione” o “pubblicizzazione” di settori di servizi sociali (sanità, istruzione, trasporti, ecc.), di altre tipologie di servizi (comunicazioni, acquedotti e bonifiche, energia elettrica, poste, ecc.) o di settori dell’industria, della finanza e del commercio. Quello che conta è che le svolte in una direzione o nell’altra vengono sempre fatte pagare alle masse popolari del proprio paese e, tramite l’accentuazione dell’espansionismo imperialista, ai popoli oppressi. Il ventennio fascista ha quindi, per es., potuto combinare una prima fase di “privatizzazioni” con una seconda fase di forte espansione della presenza nei servizi e nell’economia del “pubblico”.