Risale a solo pochi giorni fa la notizia che l’Ordine Nazionale degli Psicologi ha votato a favore delle proposte di modifica del proprio codice deontologico, con una maggioranza non larghissima di 9.034 contro 7.617 contrari. La cosa abbastanza comica di questa presunta votazione democratica è che essa ha riguardato più o meno un 7% scarso degli aventi diritto al voto, che in totale sarebbero 131.584. Il tutto dunque è stato calato dall’alto senza nemmeno una qualche discussione o reale partecipazione degli stessi psicologi. La piattaforma “Ilnocheunisce”, un sito creato da diversi sostenitori del no in questo “referendum”, segnala inoltre problemi tecnici e difficoltà nella piattaforma di voto, assenza di comunicazione e altre decisioni che renderebbero ulteriormente discutibile la presunta trasparenza di questo percorso elettorale.[1]
Ciò che è ben più inquietante però, riguarda il contenuto effettivo di questa modifica. Per inquadrarla adeguatamente, occorre sia tenere presente come la professione dello psicologo non sia di per sé sovrapponibile a quella degli psichiatri, sia considerare le differenziazioni che intercorrono tra ambito privato e pubblico, per quanto la tendenza sia ad una sempre maggiore integrazione tra tali ambiti. Infine, occorre considerare come, in generale, tale figura tenda ad operare come rappresentativa di una società di classe che, come tale, è strutturalmente discriminatoria.
Assistiamo, sotto il profilo degli indirizzi delle scuole psicologiche prevalenti su scala internazionale,[2] sia dal lato dei contenuti che dal lato delle tecniche e delle prescrizioni terapeutiche, ad una mistificazione di fondo volta a cancellare il ruolo e l’influenza delle diseguaglianze sociali nelle manifestazioni della vita quotidiana. A tale proposito, la tendenza è anche quella ad estendere continuamente le presunte manifestazioni del “disagio psichico” (si pensi alla crescente e spesso inquietante attenzione rivolta ai giovani, agli adolescenti e agli scolari della scuola primaria) con la “scoperta” di sempre nuove “patologie”, la prescrizione di terapie con uso crescente di farmaci, l’introduzione diretta della figura dello psicologo in nuove sfere della vita sociale (si pensi alle istituzioni scolastiche, educative, associative), la sempre più articolata connessione, al di fuori di ogni possibile controllo e verifica democratica, tra psicologi, assistenti sociali, politiche sociali, istituzioni sanitarie e psichiatriche, associazioni culturali e religiose, terzo settore, forze di polizia e ambito giudiziario.
In sintesi, il tutto si risolve nella tendenza alla “psichiatrizzazione” del conflitto sociale”, a cui dunque partecipano e contribuiscono pienamente gli stessi psicologi.
Le modifiche apportate con il nuovo codice deontologico, quando non forzano l’allineamento del corpo degli psicologi con il corso istituzionale reazionario in atto, si traducono in ulteriori spunti e suggerimenti per alimentarlo ulteriormente.
Entrando nel merito delle modifiche del codice approvate, un aspetto subito evidente è quello rappresentato dalla pressione per approdare ad un’integrazione dell’ordinamento legislativo nella parte che prevede il ricorso al trattamento “sanitario” obbligatorio. Con tale termine s’intendono una serie sempre più estesa di “interventi sanitari”[3], che possono essere applicati in caso di necessità ed urgenza e qualora sussista il rifiuto al trattamento da parte del soggetto che deve ricevere assistenza o delle apposite figure genitoriali, parentali o tutoriali deputate attualmente all’esercizio di tale parere.
Secondo la legge in vigore, per es., un TSO, almeno sul piano teorico, richiede il parere positivo di due medici, del sindaco e la convalida dell’autorità giudiziaria entro 48 ore. Ora l’integrazione proposta consiste nel fatto che, nel caso di persone minorenni o incapaci, viene aggiunta la seguente frase: “Nei casi di assenza in tutto o in parte del consenso informato, ove la psicologa e lo psicologo ritengano invece che il trattamento sanitario sia necessario, la decisione è rimessa all’autorità giudiziaria”. Ciò significa che da un lato viene sancita e rafforzata la tendenza a ridurre al minimo gli obblighi relativi ad un’adeguata informazione nei confronti dei diretti interessati e che, dall’altro, in caso lo ritenga opportuno, lo psicologo è tenuto a rivolgersi al giudice per l’imposizione di un trattamento sanitario, bypassando la ricerca del consenso dei tutori e dei genitori.
Quest’ “integrazione” in primo luogo enfatizza il ruolo sanitario dello psicologo, avvicinandolo ulteriormente a quello dello psichiatra e limitando quindi le specifiche competenze che, almeno teoricamente, dovrebbero incentrarsi sulla terapia focalizzata sulla relazione con il reale o presunto portatore del “disagio psichico”. In secondo luogo, estende arbitrariamente le possibilità del “trattamento sanitario obbligatorio”, nel momento in cui sottolinea che lo psicologo è tenuto a segnalare al giudice tale necessità, qualora lo ritenga necessario, sulla base delle proprie specifiche competenze.
Poiché si presume che l’esperto in materia non sia propriamente rappresentato dal giudice di turno, ci troviamo qui di fronte ad una prospettiva d’incremento dei poteri della figura dello psicologo. Tutta la modifica del codice deontologico approvata tende inoltre a sfumare i confini relativi a tali poteri, ampliando a dismisura la sfera delle valutazioni e delle decisioni arbitrarie, fondate cioè unicamente sul parere professionale dello psicologo. A questo punto però si deve ulteriormente notare come, se la psichiatria teoricamente ha a che fare con una sfera del disagio psichico maggiormente definita poiché caratterizzata da manifestazioni psicotiche abbastanza chiaramente constatabili sul piano fenomenico, nulla del genere invece è pertinente allo psicologo, il quale interviene propriamente non tanto sulle patologie psicotiche, quanto su quelle presunte borderline o molto più spesso rispetto a svariate manifestazioni del disagio, connotate apriori come psichiche anche quando in realtà andrebbero lette come espressione del “disagio sociale” ossia di condizioni di vita caratterizzate dal dominio dei rapporti di produzione e sfruttamento capitalistici. Paradossalmente quindi, si prospetta la diffusione e la presenza della figura dello psicologo e l’attribuzione a tale figura di poteri complementari e supplementari rispetto a quella dello stesso psichiatra.
Anche in seguito all’individuazione dei giovani e dei minori come categorie a rischio da assoggettare a maggiori controlli e a un più ampio disciplinamento morale (temi tipici dei processi di corporativizzazione e fascistizzazione delle società imperialiste), si prospetta una diffusione sempre maggiore della figura dello psicologo all’interno delle istituzioni scolastiche, educative, assistenziali, ecc. pubbliche e private, e in generale su tutti i versanti delle relazioni (associazionismo) e dei servizi sociali. Considerato che le comuni teorie e terapie hanno al massimo il valore di una sintesi empirica di dati riferiti ad un numero relativamente esteso di casi individuali che parrebbero mostrare medesime sintomatologie, e di metodologie sperimentali atte a favorire o modificare determinati comportamenti, si capisce quindi che la questione del “trattamento sanitario obbligatorio” deliberata su una tale base è priva di effettivo fondamento e apre la strada ad un uso ideologico e politico di tali “trattamenti”. Qui non si tratta, poiché non è nemmeno propriamente questo un terreno di competenza della figura dello psicologo, d’imporre il trattamento obbligatorio al minore di una famiglia di testimoni di Geova che rifiutano le trasfusioni, così come non si tratta della possibilità d’imporre il trattamento vaccinale, anche nel caso di assenza di obbligo, ai genitori che lo rigettano per i propri figli. Qui entriamo invece nel campo sconfinato delle possibilità di gestire i casi di “cattiva condotta” sulla base d’interpretazioni “psicoterapeutiche”, d’imporre terapie cosiddette psicologiche o farmacologiche ai minori oppure, nel caso in cui si determini l’impossibilità di un mantenimento adeguato dei figli per cause economiche, di procedere interpretando la vita delle masse proletarie e popolari come manifestazioni di comportamenti immorali e di degrado umano e culturale. In quest’ultimo caso, con l’ovvia conseguenza che il “trattamento sanitario obbligatorio”, supportato da servili valutazioni d’insegnanti, assistenti ed educatori, finisce per tradursi in un affidamento ai servizi che possono imporre l’allontanamento o altre limitazioni delle libertà di valutazione e di scelta.
Nel nuovo codice deontologico, in linea con tutto questo anche per quanto riguarda il principio formale del “rispetto dell’autodeterminazione del paziente”, si assiste al fatto che lo stesso diritto viene cancellato, mentre viene lasciato un generico riferimento al rispetto del “valore”, alla “dignità” e alla “autonomia”.
Un ulteriore tassello di questa “riforma” è poi il fatto che adesso lo psicologo non è più obbligato alla segretezza dei dati del paziente, ma solo alla riservatezza. Quindi diventa possibile rivelare i dati del paziente qualora questo venga richiesto da non meglio specificate autorità. Nei fatti da tempo tale diritto non viene rispettato, ma qui si vuole arrivare a sancire legalmente quello che ancora oggi si fa sottobanco, in forma teoricamente illegittima e illegale.
In tal modo diviene sempre più evidente lo scopo di questa riforma. Di fronte alla decadenza sempre maggiore della società capitalista e alle problematiche e contraddizioni che essa provoca, la figura dello psicologo diventa importante come figura ideologica che tenga sotto controllo le contraddizioni sociali sempre più esplosive. In questo senso diventa importante aumentarne i poteri e la discrezionalità, in modo da renderlo un anello di congiunzione più efficiente tra le varie istituzioni e associazioni dello Stato reazionario. Queste problematiche diventano più chiare se capiamo anche la natura di classe della psicologia della nostra società, e la sua natura pseudoscientifica al servizio dei poteri dominanti. La psicologia nella nostra società maschera dietro una pseudo-scienza decisioni che sono in realtà prettamente ideologiche. A questo è funzionale il passaggio dello psicologo da una figura di cura ad una figura medica, e dalla cura psicologica al trattamento sanitario. Questa identificazione pseudo-scientifica di decisioni prese politicamente si era già riscontrata durante la pandemia e la sua gestione prettamente burocratica e autoritaria.
Lo Stato borghese reazionario ha tutto l’interesse a promuovere una società corporativa dai tratti tecnocratici, in cui i processi più prettamente politici e di dominio vengano fatti valere in modo autoritario giustificati da una pseudo-scienza funzionale ad occultare la natura ideologica della società. Ciò non deve ovviamente avere a che fare con una critica irrazionalista della scienza in quanto tale, ma a mostrare la natura pseudo-scientifica di certe teorie, concezioni e decisioni.
In questo senso, tale riforma e la metodologia anti-democratica con cui è stata promossa ci dicono molto sul processo di fascistizzazione in corso e di come esso trovi un riscontro anche in ambiti apparentemente “tecnici” e “neutrali” come il “disagio” e la “salute mentale”.
Ciò ci fa capire anche la natura di certe “riforme”, rivendicate dai sindacatini studenteschi corporativi, come quella del Bonus Psicologo per gli studenti universitari, che per ora è un fondo di 40,5 milioni a discrezione dei singoli atenei. In realtà i sindacatini studenteschi andavano ben oltre, pretendendo un presidio psicologico in ogni scuola e considerando questo bonus “utile ma limitato”.[4] Avendo un codice deontologico da cui è impossibile prescindere all’interno della specifica professione, questo ovviamente in barba ai più elementari diritti democratici e senza la minima possibilità di passare attraverso un parlamento ormai da tempo esautorato dalle sue vecchie funzioni democratico-formali, sostenere la rivendicazione di avere più psicologi nelle scuole significa essenzialmente favorire ulteriormente la corporativizzazione e la fascistizzazione dello Stato. In realtà lo psicologo scolastico o universitario non è semplicemente una figura interessata a risolvere i problemi degli alunni, ma è un ingranaggio della burocrazia statale. Serve a controllare le contraddizioni e le problematiche degli studenti in modo che non vadano verso una presa di coscienza, che necessariamente li porterebbe ad interrogarsi sulla questione di classe e a cercare di dare risposte politiche che rischierebbero di mettere in discussione l’attuale fascistizzazione.
Da qui la necessità di denunciare questa riforma, tra l’altro passata completamente sotto silenzio dai grandi quotidiani, se si escludono le considerazioni per altro assai superficiali de “Il manifesto”[5], come anti-democratica e autoritaria e di combattere per una reale presa di coscienza delle masse sulla natura di classe di decisioni presentate come “tecniche” e “imparziali”.
[1] https://www.ilnocheunisce.it/2023/09/26/quale-vittoria/
[2] In cui dominano le varianti del comportamentismo e del cognitivismo, ancora affiancate da impostazioni connotate da una spiccata propensione etica spesso intrecciata a motivi religiosi come la “terapia incentrata sulla persona”, e gli indirizzi “fenomenologici-esistenzialisti” (l’indirizzo psicanalitico per quanto nell’esperienza inglese, rifacentesi alla scuola di Melanie Klein, sia stato applicato anche a livello di massa sul piano dell’interpretazione e della gestione dei conflitti sociali e sindacali, in Italia non è generalmente utilizzato nei confronti del proletariato e delle masse popolari e quindi esula dai ragionamenti che si sviluppano sulla base dell’impostazione scelta per questo articolo).
[3] Spesso si associano erroneamente i TSO alle sole patologie psichiatriche; in realtà i TSO possono essere disposti per qualsiasi causa sanitaria reputata di rilevanza per l’interesse pubblico.
[4]https://www.ohga.it/uno-psicologo-in-ogni-scuola-la-proposta-di-legge-degli-studenti-italiani-di-fronte-al-silenzio-della-politica/
[5]https://ilmanifesto.it/trattamento-psicologico-imposto-si-dellordine-nazionale