Il 19 giugno è morto il bracciante agricolo di origine indiana Satnam Singh. Nella giornata di lunedì 17 giugno aveva perso un braccio, tranciato di netto da un macchinario per il taglio del fieno mentre prestava il suo lavoro in condizioni servili per un’azienda agricola di Latina. I padroni e i caporali hanno impedito l’uso dei cellulari per chiamare i soccorsi. L’hanno caricato su un furgone e lasciato vicino alla sua abitazione con accanto il braccio tranciato dentro una cassetta per la frutta. È morto dopo 36 ore a causa dell’eccessiva perdita di sangue. Satnam era costretto a pesantissimi turni di lavoro, era pagato 4 euro all’ora e lavorava senza contratto. Questa situazione è emblematica della maggioranza dei braccianti agricoli “italiani”, “comunitari dei paesi dell’Est” ed “extracomunitari”, che vengono quotidianamente movimentati nell’agricoltura. Si tratta di un numero stimato, tra i dati dell’INPS e successive stime dell’ISTAT, intorno a 1.200.000 unità. Di fatto le stime vengono effettuate sulla base dei dati forniti trimestralmente dalle stesse imprese agricole, quindi risultano ampiamente sottostimati. Se consideriamo un ulteriore 30%-40% di lavoro irregolare e sommerso possiamo considerare verosimile la cifra di 1.500.000 braccianti. Operano con salari largamente inferiori a quelli medi di un operaio dell’industria, spesso inferiori del 50%, 60%. Sono costretti a turni prolungati sino a 12-14 ore giornaliere. Sono assoggettati a sistemi di paga, almeno per parte del salario, in merci (alimenti, schede telefoniche) e servizi (abitazioni fatiscenti, trasporto, pratiche amministrative, ecc.). Le lavoratrici sono abitualmente sottoposte a ricatti e violenze sessuali. Cooperative che fungono da agenzie di intermediazione e caporali gestiscono la forza-lavoro in un settore dove monopoli, grandi imprese e criminalità organizzata operano congiuntamente nel controllo e nella repressione quotidiana dei braccianti. Tutto questo sotto gli occhi degli apparati statali, che promuovono e legittimano questo sistema approvando leggi razziste, che legano il lavoratore al padrone con rapporti di dipendenza servili e che legittimano l’operato dei caporali e delle mafie.
Ciò avviene in un sistema di rapporti agrari strutturalmente caratterizzato dagli esiti delle cosiddette riforme agrarie degli anni Cinquanta del secolo scorso. Riforme, volute dall’imperialismo USA e attuate tramite lauti indennizzi e la somministrazione ai contadini assegnatari di contratti semi-feudali (enfiteusi) con gli Enti di riforma, che hanno mirato a produrre un’estrema frammentazione della piccola impresa contadina, e a generare un irrisolvibile dualismo tra macro-fondo e micro-fondo. Si è lasciato così sostanzialmente immutato il potere dei latifondi (con limite di 300 ettari, ma estendibile sino a 750 e oltre), i quali in buona parte si stavano combinando con la rapina speculativa del suolo e il controllo degli appalti delle opere pubbliche. Nel Sud Italia e nelle Isole, al servizio e all’ombra del grande capitale monopolistico industriale e finanziario del Nord Italia e del capitale straniero, si è così venuta a creare una nuova generazione di proprietari semi-feudali e di borghesia commerciale e finanziaria ad essi strettamente legata. Una nuova generazione poco interessata allo sviluppo capitalistico dell’agricoltura, mirante al massimo sfruttamento del bracciantato e agli investimenti nella speculazione edilizia che, in alcune zone del Centro e soprattutto nel Meridione e nelle Isole, ha continuato come i vecchi proprietari fondiari a dominare negli Enti pubblici e nello Stato nel noto intreccio con la mafia. Un pilastro, insieme al capitale imperialista del Nord Italia, a settori legati al capitale straniero (USA e tedesco in particolare) e alla grande burocrazia statale capitalistica, del mostruoso blocco dominante del nostro paese, che oggi marcia velocemente in direzione del fascismo e dell’espansionismo guerrafondaio.
Risulta erroneo confondere l’impresa agraria capitalistica con l’impresa agraria di tipo parassitario-speculativo diretta erede dei latifondi semifeudali. Nel Meridione è soprattutto quest’ultimo tipo d’impresa ad essere prevalente nei rapporti agrari. Ed è in particolare questo tipo d’impresa che impone al bracciantato relazioni di produzione semi-servili. In questo modo, è però l’intero bracciantato che ne risente, anche quello delle aziende capitalistiche più sviluppate e maggiormente integrate con l’industria, poiché le relazioni semi-servili condizionano al ribasso anche quelle maggiormente definite in senso capitalistico. Mentre nel complesso, tale tipologia di aziende rappresenta una delle cause della profonda crisi agraria che attraversa l’Italia e che molti, per salvare i grandi capitali e le grandi rendite e per diffondere il razzismo e il fascismo, hanno interesse ad attribuire agli effetti della concorrenza del sistema agricolo di altri paesi.
Nell’agricoltura e nell’allevamento italiani sono un milione le aziende, prevalentemente collocate nel Centro-Sud e nelle Isole, che occupano sino ad un massimo di una unità di forza-lavoro annua. La quasi totalità di tali aziende hanno una superficie agricola utilizzata [SAU] minore di 5 ettari, ma gestiscono solo il 12,6% della SAU complessiva, mentre quelle con oltre 20 ettari di SAU rappresentano appena il 9% del totale, a cui però è riconducibile il 64,8% della SAU complessiva. La quasi totalità delle micro-aziende e piccolissime aziende sopravvive a malapena. Molti contadini sono a loro volta anche dei braccianti oppure sono contadini sfruttati che operano in affitto o in comodato gratuito. In quest’ultimo caso forniscono spesso lavoro sommerso in cambio dei prodotti coltivati sui terreni dei proprietari.
La misera condizione di milioni di braccianti e contadini (nel complesso quasi 2.500.000) è espressione di una stagione di riforme agrarie abortite negli anni Cinquanta e rappresenta uno dei fondamenti del riproporsi e del continuo accentuarsi (oggi incomparabilmente aggravato dall’approvazione della legge razzista e antimeridionalista dell’autonomia differenziata) di quella che Antonio Gramsci chiamava “Questione Meridionale e delle Isole”.
Nel complesso in Italia, senza tener conto delle aspirazioni e degli interessi di braccianti, contadini poveri, piccolissimi allevatori, ecc., non è pensabile nessuna soluzione reale della questione agraria, nessuna vera ripresa economica, politica, morale e sociale del Sud e delle Isole, nessuna rivoluzione democratico-popolare.
PER LA DEMOCRAZIA POPOLARE