La Meloni ha visitato nei giorni scorsi la Tunisia incontrando il presidente Kaïs Saïed. Da quando è salita al governo, la presidente del Consiglio ha dimostrato una certa intraprendenza in fatto di rapporti coi paesi africani. È infatti il primo capo di governo a visitare l’Etiopia dopo l’estenuante conflitto del Tigray, per non parlare delle precedenti visite in Libia, Algeria, Egitto.

Possiamo dire che anzi questo interesse per l’Africa è, almeno in parte, una novità del governo Meloni rispetto ai precedenti governi e quindi da analizzare e comprendere. Questi incontri non vanno visti infatti come semplici occasioni per la Meloni di fare pubblicità all’operato del proprio governo o come richiami nostalgici al passato coloniale per consolidare lo zoccolo duro del suo partito. Sono invece tentativi di rappresentare le principali direttrici del capitale finanziario italiano nell’attuale fase.

Si è molto sbandierata a livello propagandistico durante il suo discorso la questione del l’immigrazione, ma questa è sicuramente una questione secondaria. Certamente i paesi europei hanno interesse a dosare, nella maniera per loro migliore, tale fenomeno e a servirsi a tale scopo di vari “uomini forti” locali. Ma le questioni fondamentali sono altre.

In Tunisia, di fronte alla crisi economica e alla ribellione delle masse popolari, la borghesia burocratica locale ha puntato sull’uomo forte Kaïs Saïed, che ha vinto le elezioni completamente delegittimato da un’astensione record e senza opposizione. Il suo governo funziona a colpi di decreti presidenziali con tanto di carcere per i giornalisti sgraditi.

La crisi economica e la rivolta delle masse spingono la borghesia burocratica ad aumentare la subordinazione all’imperialismo straniero. Infatti Saïed si è rivolto al Fondo Monetario Internazionale per un prestito da 1,9 miliardi. Prestito che terrebbe in piedi la Tunisia per un po’ di tempo, a prezzo di tagli e sacrifici per le masse popolari. D’altronde per contrattarne il prezzo il presidente ha fatto riferimento alla possibilità di rivolgersi ai BRICS, cioè principalmente all’imperialismo russo e cinese, se le potenze occidentali dovessero mostrarsi troppo esigenti.

Quando si parla di contenzioso tra questi paesi e i paesi imperialisti bisogna capire bene il contenuto di tale diatriba. Non si tratta infatti di uno scontro tra dei paesi capitalisti dipendenti e paesi imperialisti per la difesa della propria “sovranità”, ma di un contradditorio per la rinegoziazione dei termini della subordinazione dei paesi a capitale burocratico. Stessa cosa, pur con decisive differenze, potremmo dire della politica del governo Meloni.

Il “piano Mattei” di cui ha parlato la Meloni si basa in realtà su una vecchia ambizione della borghesia italiana. L’ENI di Enrico Mattei infatti proponeva una politica che nella forma si presentava come in opposizione alle “sette sorelle”, ma che nella sostanza si traduceva in un tentativo di forzare il proprio inserimento negli spazi e nelle sfere d’influenza lasciate libere dalle altre potenze imperialiste. Politica che dunque si guardava bene dal mettere, per es., in discussione l’appartenenza dell’Italia all’Alleanza Atlantica. Oggi i margini di manovra per l’imperialismo italiano sono più ristretti di allora e la sua effettiva potenza economica, come sempre, non è all’altezza delle sue ambizioni da grande potenza. Da qui quindi il viaggio della Meloni, da un lato come mediatrice del grande capitale finanziario occidentale e dall’altro come tentativo di ritagliare degli ulteriori spazi marginali per il capitale finanziario italiano.

D’altronde la Meloni cerca addirittura di giustificare questo ruolo imperialista e straccione dell’Italia con qualche frase demagogica in favore dei “popoli oppressi”. Afferma che l’Africa «è un continente che, a differenza della percezione che se ne ha, non è povero, ma talora viene sfruttato e talora non ha gli strumenti per tirare fuori le proprie ricchezze, con cui potrebbe tranquillamente vivere e prosperare».1

L’imperialismo italiano ha da sempre questa tendenza a presentare la sua politica imperialista come fondata sugli interessi delle nazioni locali. Pensiamo a quando Mussolini sbandierò nel ’37 un evento in cui gli fu donata la “spada di protettore dell’Islam” da parte di alcuni capi berberi in Libia o come Enrico Mattei tentasse di presentare la politica dell’ENI in contrapposizione alle “sette sorelle”, ovvero ai monopoli del petrolio principalmente statunitensi e britannici.

L’Italia vorrebbe contare di più in Africa e un certo ruolo ce l’ha, considerando che è sesto paese per investimenti in zona. Il problema è che per farlo deve innanzitutto misurarsi con altri concorrenti molto più forti. Pensiamo per esempio a quanto potere ha ancora l’imperialismo francese nei paesi subsahariani, attraverso anche il franco FCA, moneta locale stampata direttamente dalla banca centrale francese, questione spesso strumentalizzata dalle destre e dalla stessa Meloni per presentarsi come “difensori” dei paesi oppressi di quelle zone.

Ma pensiamo anche al socialimperialismo cinese che può contare su una base economica enormemente  più solida, attraverso cui fare concorrenza alla presenza di francesi, americani e britannici. Nulla di paragonabile con l’economia italiana, fanalino di coda d’Europa tra i principali paesi europei, con un prodotto interno lordo trainato in gran parte da servizi, speculazioni edilizie e turismo.

Tutto questo comporta il fatto che l’imperialismo italiano continui sempre a ritrovarsi ad operare in subordine agli altri paesi imperialisti più forti. Lo dimostrano fatti come la questione libica dove, dopo aver dovuto ingoiare una situazione più sfavorevole con l’invasione della Libia e il rovesciamento di Gheddafi, ci si ritrova a sostenere un governo libico più debole, già sostenuto dagli Stati Uniti. Oppure basti guardare alla natura della prima base italiana in Africa nel Sahel, costruita a margine dell’intervento francese nella regione.

In sostanza, l’azione dell’Italia in Tunisia va letta, più che come un’autonoma decisione, come il tentativo di farsi ambasciatore del grande capitale finanziario occidentale e cercare di guadagnarci qualcosa mediando nel contenzioso tra il capitale burocratico tunisino e l’imperialismo occidentale. Imperialismo sì dunque, ma debole e subordinato.

1https://www.tpi.it/politica/meloni-africa-piano-mattei-algeria-egitto-tunisia-etiopia-somalia-202304221002962/